Una divertente commedia del 1991, “Scappo dalla città. La vita, l’amore e le vacche”, è uno dei tanti film che mi sono visto, o sarebbe meglio dire rivisto, per rendere meno alienante il lockdown nel periodo di massima virulenza di questo virus che ha deciso di farci poca gradita compagnia in questo atipico 2020. Film e tante buone letture e fra queste una bella storia che parla proprio di una fuga dalla città, di amore (per la vita, le persone, la natura), ma non di vacche bensì di vino. Ma non vorrei essere frainteso. Il libro per contenuti, profondità di pensiero e visione propositiva del futuro, non ha niente a che spartire con la leggerezza del film, anche se per certi versi in entrambi è protagonista la voglia di cambiamento. Il libro che ha aperto il mio cuore e sicuramente è riuscito a dare nuova linfa vitale ai miei neuroni, troppo spesso a rischio sonnolenza, anestetizzati da una società moderna che ci obbliga a overdosi di spazzatura mediatica, è stato “Non è il vino dell’enologo” che ha avuto come illuminato scrittore-protagonista, Corrado Dottori, apprezzato oltre che per i suoi scritti, anche per i suoi vini, figli della sua Cupramontana, nelle colline marchigiane. Il libro (pubblicato nel 2012 – nuova edizione del 2019) racconta la storia di Corrado quando alla fine degli anni ’90, da giovane laureato della Bocconi, era dedito in quel di Milano a porre le basi per una remunerativa carriera professionale nel mondo della finanza presso una banca internazionale.
Quando però si accorge che la sua “comfort zone”, ricca di mondanità milanese e rosee prospettive economiche sta diventando una prigione per il suo modo di essere e di pensare, decide di dare una netta svolta alla sua vita. Disegna il suo nuovo mondo e i suoi sogni nella terra natia, nel cuore delle colline marchigiane, dove il padre gli ha lasciato una piccola vigna, e dove assieme alla sua compagna Valeria si trasferisce. Senza nessuna nozione di viticoltura, inizia un lungo percorso fatto di molti ostacoli da superare ma anche di nuovi ed emozionanti momenti da vivere con tutti i propri sensi. È un racconto personale che parla di vino, di natura, di vita, dove ha un ruolo di primaria importanza il rapporto con il padre, con il quale in un habitat neutrale da quella che era stata la loro vita più recente, avviene una sorta di ricongiungimento che porterà a emozioni agrodolci prima con la condivisione del nuovo progetto e poi con la prematura morte del genitore. Il volumetto racconta di un percorso condotto con determinazione e coerenza verso un’agricoltura sana e naturale che possa dare in dono vini che siano espressione della propria persona e del territorio d’origine. Un viaggio dove l’incontro con il controverso mondo dell’enologia lo porta a riflessioni critiche su quello che debba essere il modo corretto di fare vino, lontano dalla manipolazione consumistica e globalizzata del gusto. Nel corso del suo viaggio incontra illuminati personaggi, anticonformisti e maestri di teorie economiche non allineate al mondo globale, che lo portano alla consapevolezza che il sistema capitalistico-consumistico ha creato notevoli danni sociali e ambientali e che una nuova idea di sviluppo economico debba rimettere in prima linea, come elemento fondamentale, la figura del contadino, custode della terra e paladino della biodiversità.
Sono passati otto anni dalla data di pubblicazione del libro ma gli argomenti sono ancora tremendamente attuali. La vita di Corrado ha avuto il suo naturale percorso e assieme all’attività di vignaiolo nella sua Cupramontana, ha sviluppato nuovi progetti e com’è naturale, consolidato certe sue idee, ma anche modificato e rivisto altri suoi pensieri. Lo scorso anno ha pubblicato anche un nuovo libro, “Come vignaioli alla fine dell’estate” che parla di agricoltura, di clima, di ecologia, di decrescita e di altri argomenti che hanno un filo conduttore con il primo libro aggiungendo tematiche figlie della sua evoluzione di pensiero. Corrado, accanto a un’indiscutibile onestà intellettuale, sprigiona un sano spirito ribelle, tipico di chi non vuole essere la classica pecora del gregge che segue mode e stili che ci vengono imposti dall’alto, illudendoci di essere delle persone libere mentre in realtà il nostro pensiero e le nostre azioni sono magistralmente indirizzati a tavolino verso la direzione voluta. Questo libro ha il grosso merito di coinvolgere il lettore con un racconto che apre una nuova visione verso il mondo e la vita, riesce a farti pensare, emozionare e riflettere se la strada che stiamo seguendo sia quella giusta. In un periodo storico nel quale siamo bersagliati da troppa cattiva informazione, dove mancano cultura, ideali e senso di comunità, questo è uno scritto sul quale rifugiarsi per riavvicinarsi a un modello di società e di vita che dovrebbero rappresentare la normalità e il modus operandi di tutto l’essere umano.
Dialogando con Corrado Dottori S.C. Tu e tua moglie Valeria avevate mille progetti e avevate programmato nei vostri pensieri di vivere a Parigi o New York e invece vi siete trovati radicati in un paese di provincia assieme a meno di altre cinquemila anime, lontani da quel mondo finanziario sul quale si erano basati i tuoi studi e i primi passi nel mondo del lavoro. Dopo dieci anni di vita passati nelle Marche, nella tua Cupramontana. Dopo dieci vendemmie. Dopo dieci anni da quando sei fuggito dalla città e rimesso tutto in discussione, arriva un impellente bisogno di trascrivere il tuo pensiero e le tue emozioni in un libro. Ma com’è nata questa idea, è stato frutto di un progetto ragionato e lungamente caldeggiato, o c’è stata una scintilla, un fuoco improvviso che ha acceso questo tuo importante progetto? C.D. Ho sempre scritto, un po’ per diletto e un po’ seriamente (“Non è il vino dell’enologo” non è il mio primo libro…). Dal 2007 ho un blog che mi è servito per fissare alcuni elementi del mio lavoro. La morte di mio padre è stato l’evento scatenante per la scrittura di “Non è il vino…”: la sua perdita improvvisa mi ha messo improvvisamente di fronte alle diverse traiettorie delle nostre vite. Lui dal paese se ne era andato a diciotto anni per girare il mondo facendo l’ingegnere, io ci sono tornato con una laurea in economia in tasca. Lui ha vissuto in prima persona il “miracolo economico”, io faccio parte della prima generazione che probabilmente starà economicamente peggio della precedente. Lui amava la tecnologia, io la natura. Una serie di contraddizioni evidenti ci legavano ed è stato molto interessante per me approfondirle in un testo che partendo dalla sfera privata ha poi abbracciato un campo più vasto.
S.C. Chi non avesse ancora letto il tuo libro, solo dal titolo “Non è il vino dell’enologo” potrebbe pensare che si tratta di una decisa condanna e negazione di una figura professionale che, assieme a quella dei consulenti di comunicazione, molte volte è additata di decidere a tavolino la nascita di vini standardizzati, senz’anima, molto lontani dal quel gusto del territorio e dell’annata che solo chi non scende a compromessi con la natura e i suoi delicati equilibri è in grado di portare in bottiglia. Ma è proprio questo il messaggio principale che vuoi trasmettere con il tuo libro, o c’è dell’altro visto che accanto a tematiche complesse che parlano di vino e natura, c’è anche una storia che racconta un percorso di cambiamento, le tue emozioni, la tua famiglia, il rapporto con tuo padre e tua madre. C.D. In realtà chi è in buona fede deve ammettere – finito il libro – che la mia non è assolutamente una critica degli enologi in generale. Ci mancherebbe. Quello che è divenuta l’enologia nel corso del tempo ci racconta del mondo in cui viviamo e può essere applicato a qualunque altro sapere: quando il desiderio di conoscenza – che è meraviglioso ed è caratteristica della nostra specie – viene a contatto con gli interessi dell’industria capitalistica spesso si trasforma in tecnica omologante, in protocollo. Non c’è nulla di male, non sono un luddista!, fin quando la scienza applicata – la tecno scienza – si limita alla produzione di beni industriali di massa. Diventa un problema, invece, quando quest’apparato tecno-scientifico entra a piedi uniti nella produzione di ciò che ha a che fare con la sfera estetica: il gusto non è un prodotto scientifico ma umanistico! In questo senso il mio non è un attacco all’enologia ma una critica serrata a un’enologia che anziché essere “linguaggio” (logos) e dunque appartenere alla sfera delle scienze umane, ha deviato completamente verso le sole scienze “positive” – chimica e fisica – fino a considerare il vino non più quella grande bevanda tradizionale piena di una storia e una cultura millenarie ma una semplice soluzione idro-alcolica da correggere e costruire a piacimento. In questo senso la critica all’enologia è semplicemente parte di un discorso più ampio.
S.C. Nella prefazione di Jonathan Nossiter, viene descritta una previsione non troppo ottimistica per il futuro prossimo del nostro pianeta. Riscaldamento climatico. Uso promiscuo di OGM. Inquinamento cancerogeno dei mari e dei suoli con gravissimi danni per tutto il mondo vegetale e animale. Sono queste solo alcune delle conseguenze derivate dall’operato di multinazionali e industrie senza scrupoli, politici e agricoltori cinici, che stanno velocemente pianificando un suicidio globale. Nossiter descrive una società scollata dal bene e dal benessere collettivo, con un livello generale di cultura della società occidentale colato a picco, che ha toccato un grado spaventoso d’ignoranza, conformismo e antintellettualismo. Nel tuo operato e nella tua scelta di vita, Nossiter ha però intravisto l’azione di un pacifico guerriero alla ricerca di come con il proprio contributo personale, che può essere anche quello di ciascuno di noi, si possa aiutare l’opera di preservazione del nostro pianeta e della nostra civiltà. Quello che però io ti chiedo, è se sia veramente plausibile credere che la nostra speranza sia da riversare solo in quello che ciascuno di noi può fare o ci sono (o sarebbero) altre strade da perseguire per garantire il futuro di un pianeta, la nostra amata Terra, mai così in pericolo come in quest’ultimo periodo storico? C.D. Una delle caratteristiche di Homo sapiens, cioè della nostra specie, è la risoluzione collettiva dei problemi. Per quanto siano importanti le scelte, e gli sforzi individuali, la nostra storia evolutiva è fortemente correlata al concetto di cooperazione molto più che a quello di competizione. Per questo motivo sostengo che l’unico modo di agire contro i problemi che hai ricordato è un’azione collettiva e coordinata. Faccio parte di una generazione che negli anni Novanta ha creduto che bastasse il “consumo critico” a cambiare le sorti del pianeta… Beh, non è così! Le scelte di consumo individuali non incidono sui grandi temi, non possono farlo. Solo scelte politiche globali possono farlo. Il che è al tempo stesso un grande limite ma anche una grande opportunità.
S.C. In Italia cinquant’anni fa il 30% delle persone si occupava di agricoltura mentre oggi ne è restato un misero 3%. L’Italia, paese dell’ottima enogastronomia, importa cibo da tutto il mondo: non solo prodotti esotici, ma anche grano, frutta, verdura, carni. La storia di questi ultimi cinquant’anni ha visto una profonda industrializzazione dell’agricoltura che ha provocato eccedenza di manodopera, migrata verso le città industriali. Questo veloce spopolamento a creato molti squilibri e portato verso un’agricoltura chimica e intensiva atta ad abbattere i costi e restare così competitivi sui mercati globalizzati. Tutto questo ha portato a uno sfruttamento e inquinamento dei suoli e a una produzione di massa di cibo di bassa qualità, molte volte di dubbia salubrità, visto l’uso frequente di pesticidi e prodotti di sintesi. Ultimo ma non per questo meno importante, è il fatto che la figura del contadino è stata svilita e ha perso il suo ruolo fondamentale che era quello di vero artigiano della terra e custode del patrimonio naturale che ci è stato concesso in prestito. Oggi stipendi da fame e sommerso dilagante ne sono la testimonianza più tangibile. Dopo questa mia premessa, ti chiedo se pensi, e speri, che nel futuro, molti giovani possano seguire il tuo percorso per ridare lustro a un settore fondamentale per il genere umano e la vita stessa del pianeta, e che consigli, dall’alto della tua esperienza, daresti a un giovane che decide di intraprendere questo percorso nel mondo dell’agricoltura? C.D. La questione è piuttosto complicata. In realtà il “ritorno alla terra” è in larga parte un mito costruito ad arte dalla comunicazione. È vero che negli ultimi anni c’è stata forse un’inversione di tendenza e molti giovani stanno davvero tornando all’agricoltura ma bisogna farsi un paio di domande importanti: 1) Quale agricoltura? Quella industriale sponsorizzata da Coldiretti e Ministeri vari o un’agricoltura tradizionale, organica, sostenibile? ….e poi 2) qual è davvero l’impatto numerico di questo ritorno? Perché la verità è che quando chiude una fabbrica da 1000 dipendenti è semplicemente impossibile ricollocare quei lavoratori in agricoltura, sia come imprenditori agricoli sia come lavoratori dipendenti. Ovvero, più in generale: nei paesi ricchi l’agricoltura ha oggi raggiunto una produttività tale per cui pochi occupati riescono a soddisfare le esigenze alimentari della stragrande parte della popolazione. Il problema è semmai a che prezzo sociale e ambientale…. Questo è il tema. Dunque, l’agricoltura deve diventare centrale nel discorso economico non tanto per il numero degli addetti, che sarà forzatamente minoritario, per l’immaginario che riesce a produrre: si tratta in teoria della più ecologica delle attività umane! La conversione ecologica deve passare in primis per la trasformazione dell’agricoltura e per la capacità di quest’ultima di contaminare le città…Non sono nessuno per dare consigli ai giovani. Mi limito solo a dire che – come dicevano in nostri nonni – la terra è bassa: non è una scelta che si può fare per moda o privilegiando “la narrazione” al contenuto. Quello di cui ho bisogno sono segni tangibili, riconoscibili, concreti, del mio rapido passare in questa vita, su questo mondo, per questa terra.
S.C. Passa attraverso queste tue parole il momento topico nel quale decidi di cambiare completamente vita, lasciare Milano e il lavoro in banca e iniziare a fare il viticoltore nella tua Cupramontana? Ci racconti in breve com’è avvenuto questo cambiamento, e se sia stata una scelta complicata da realizzare? C.D. Io avevo la fortuna di avere la terra. Conservavo un legame che i miei genitori, sebbene cittadini, non avevano mai tagliato del tutto. Questo ha fatto sì che partissi avvantaggiato. Detto questo è chiaro che hanno contato una serie di questioni particolari, il mio carattere ribelle e comunque anticonformista, il fatto di avere una compagna che è stata fondamentale in quella che è stata prima di tutto una scelta di vita, la passione per il vino che lentamente si era fatta strada in me accanto ad altre. Tutto questo ha fatto sì che se da fuori la nostra scelta poteva essere vista come “folle” in realtà è stata molto coerente con i nostri caratteri e le nostre aspettative. Insomma, coraggio ce n’è voluto ma molto meno di quello che serve oggi a un medico o a un infermiere alle prese con una pandemia globale.
S.C. Nel libro racconti i tuoi gusti di come sei attratto da quei vini che vanno un po’ controcorrente, che fanno dell’irrequietezza e della complessità il loro marchio di fabbrica. Vini che devono essere indiscutibilmente legati al territorio, all’annata e alla mano del viticoltore che li produce. Sei lontanissimo dai canoni che si sono affermati negli ultimi decenni che vogliono un vino stabile, morbido e pulito. Una componente che non deve mai mancare è la facilità di beva, legata non alla semplicità ma alla naturalità del prodotto. Volendo enfatizzare il concetto, è come svegliarsi al mattino e accorgersi che la donna al tuo fianco è meravigliosa e bella esattamente come la sera prima, senza trucco, senza accorgimenti, senza travestimenti. A distanza di dieci anni, è cambiato qualcosa nel tuo modo di pensare il vino o sei restato fedele ai canoni di allora? La mia ricerca da un lato si è estremizzata, liberandosi di una serie di paure che ancora mi tenevano legato a un’idea “convenzionale” di vino. Dall’altra la grande moda del naturale degli ultimi anni ha fatto sì che tornassi a scoprire anche la bellezza di una certa classicità. Quasi sempre i vini naturali più buoni sono anche quelli più fedeli al territorio e alla tradizione e – dunque – meno “alla moda”.
S.C. Se parliamo di Corrado Dottori, di Marche, di Cupramontana e della tua azienda agricola “La Distesa”, non possiamo non parlare di Verdicchio. Cosa rappresenta per te questo vitigno e questo vino? C.D. Mi fai questa domanda in un momento in cui il mio rapporto col Verdicchio è in grande crisi… Sarà che l’uscita dalla DOC mi ha dato più margini di manovra, sarà che l’esperienza in Sicilia (con il progetto Halara’) mi ha portato a lavorare e conoscere altri vitigni, fatto sta che non penso più – come anni fa – che il Verdicchio sia la migliore varietà a bacca bianca d’Italia. Ha sicuramente grandi pregi ma anche molti difetti, specie se lavorata in naturale. E se da un lato il mio cuore non può tradirla, dall’altro oggi trovo molta più soddisfazione nel riscoprire, ad esempio, il Trebbiano, anzi i Trebbiani… Vedo che c’è una grande attenzione al Verdicchio eppure a me piacerebbe che ci fosse invece un’attenzione per i territori: per Cupramontana, per Staffolo, per Montecarotto, per Matelica, ecc. Qui si facevano grandi vini prima dell’avvento del Verdicchio (all’epoca dei romani) e molto probabilmente se ne faranno ancora quando il Verdicchio non sarà più un’uva ottimale per questo terroir a causa del global warming…
S.C. In un capitolo del libro dove parli di Slow Food, dici che la nuova agricoltura contadina dovrà essere in grado di garantire cibi di qualità alla portata di tutti, perché è positivo sì che ci siano associazioni che salvaguardano e promuovono le eccellenze, non dovrebbe restare un discorso di nicchia ma abbracciare una platea molto più ampia e quindi il cibo dovrebbe esse buono, pulito e giusto tanto per citare Carlo Petrini, ma tu ci aggiungi una quarta definizione: accessibile. A questo riguardo se fiducioso che l’accessibilità a un sistema alimentare di qualità sia una cosa che si potrà nel futuro realizzare, o siamo ancora nel campo delle speranze e dei sogni? C.D. Accessibile per me vuol dire popolare e non mi sembra che Slow Food vada in questa direzione. È chiaro che oggi popolare significa principalmente GDO. Ma non possiamo opporci al dominio della grande distribuzione creando le mille nicchie del prodotto super tipico, introvabile e dal prezzo inavvicinabile. Quando io parlo di popolare, mi riferisco alla nostra tradizione alimentare: si parla tanto di made in Italy riducendolo a un brand quando invece il made in Italy è soprattutto un modo di vivere: sono le nonne che tirano la pasta, sono le mamme che fanno le torte, sono i mercati rionali che stanno sparendo, sono gli orti familiari o quelli condivisi, sono gli acquisti collettivi dai contadini, sono i gruppi di acquisto solidali… Il cibo da noi è sempre stato identitario, nel bene e nel male. L’agricoltura rispondeva fino a pochi decenni fa principalmente a un’esigenza di auto-consumo (si penso alla mezzadria!)… Tutto questo sta sparendo ma dobbiamo resistere in ogni modo a questa enorme perdita. Se solo le famiglie italiane anziché andare di domenica al centro commerciale in quegli orribili non-luoghi che sono le periferie urbane facessero qualche chilometro in più troverebbero meravigliose aziende agricole dove comprare direttamente quasi ogni ben di dio…
S.C. Uno dei capitoli del libro che più mi ha fatto pensare e riflettere (questo è già un grande risultato per chi cerca di comunicare il proprio pensiero con un suo scritto) è quello intitolato neoliberismo. Marketing e comunicazione che perdono il loro scopo e la loro funzione positiva di promuovere ottimi prodotti e si trovano schiavi di un mercato consumistico dove l’eccesso di produzione si trova a dover combattere nei mercati globali portando in primo piano la valorizzazione del marchio e l’immagine a discapito dei reali contenuti e della qualità del prodotto. Inutile negare che chi ha notevoli risorse e canali importanti per promuovere i propri commerci, può sbizzarrirsi con campagne mirate e imponenti capaci, molte volte, di aprire la strada anche a prodotti qualitativamente scadenti calpestando quei piccoli produttori che non hanno le risorse per amplificare il loro messaggio che parla di qualità e sostenibilità. Questo è un argomento che vale per tutti i settori, ma come siamo messi oggi nel mondo del vino? C.D. Da una parte il sistema della “comunicazione” – con internet e la potenza di dispositivi come i social – è diventato molto meno costoso e con minori barriere all’ingresso; dall’altro le ingenti somme che l’UE mette a disposizione per la promozione dei prodotti agro-alimentari (per il tramite dei Consorzi di tutela ma non solo), fanno sì che anche le piccole aziende riescano a entrare in programmi di promozione e sostegno. Questo dominio della comunicazione e del marketing, legato appunto al fatto che viviamo dentro a un’economia dell’offerta che prevede la sovra-produzione di qualsiasi bene, fa sì che la prima preoccupazione delle aziende sia lo story-telling, sia il posizionamento, sia il rafforzamento del marchio. A discapito del reale focus che invece deve restare – per me – il prodotto. Da questo punto di vista il mondo del vino è esattamente lo specchio del resto dell’economia. E il mondo del vino naturale – che agli inizi sembrava così differente – sta finendo esattamente nello stesso vicolo cieco.
S.C. Cannes. Cena in un piccolo ristorante. Tu e Valeria. Inizi a vedere un futuro nuovo per voi due lontano da Milano e dal mondo della finanza: un casolare, una vigna, un cane, un agriturismo. Tanto lavoro ma anche un nuovo modo di vivere la vita. Certo un salto nel buio ma ricco di sogni e di speranze dove l’appoggio e l’entusiasmo di Valeria sono stati fondamentali. Ma le difficoltà sono state ovviamente grandi, poiché dovevate partire quasi da zero e che le vostre conoscenze in materia di viticoltura ed enologia erano minime. Dimmi la verità, non c’è stato mai un momento in cui, preso dallo sconforto, hai pensato: ma chi me l’ha fatto fare, rimollo tutto e torno a occuparmi di finanza! C.D. Caratterialmente sono uno che non molla mai… Però certo ci sono stati momenti parecchio duri, specie all’inizio. Quando abbiamo iniziato noi non c’era affatto la moda che c’è oggi. Non c’erano gli appassionati che vediamo oggi… E quei pochi erano attratti da vini status-symbol e non certo da nuove aziende che facevano un vino sfigato come il Verdicchio (parliamo di un tempo in cui ancora il riferimento obbligato era l’anforetta). Però devo confessare che non avrei mollato tutto per tornare a fare quello che facevo prima. Cosa avrei fatto non so, se il progetto fosse fallito. Ma certamente non sarei tornato in banca.
S.C. “Non è il vino dell’enologo” è uscito nel 2012 e nel 2019 è stata pubblicata la riedizione che l’ha mantenuto uguale nei contenuti tranne qualche breve riflessione di amici e compagni di viaggio i cui testi compongono l’appendice. Ma una volta letto questo libro, già ricco di contenuti e profonde riflessioni, non si può non essere spinti dalla curiosità di scoprire cosa ci hai riservato con il tuo nuovo lavoro. In anteprima a questo strano, volendo usare un eufemismo, 2020 è uscito il tuo nuovo libro “Come vignaioli alla fine dell’estate”. Ci vuoi dare una piccola anteprima raccontandoci qualcosa su questo tuo lavoro e incuriosire così i potenziali vecchi e nuovi lettori? C.D. Il libro è uscito a fine 2019 nel pieno della novità portata da Greta e dal movimento Fridays for future. Era un libro che avevo in mente da tempo: il diario di un’annata agraria, un intero anno raccontato da un agricoltore alle prese con un mondo – e un clima – che cambia. La riflessione si è arricchita poi durante la scrittura di tutta una serie di contributi che negli ultimi tempi sono usciti riguardo ai concetti di Antropocene, di nuova ecologia, di coscienza di specie, di decrescita. C’è un dibattito enorme e poco conosciuto che riguarda le cosiddette “Eviromental Humanities” cioè le scienze umane ambientali, che mettono insieme antropologia, biologia, chimica, filosofia, architettura, ecc. che davvero sta ri-pensando il concetto stesso di natura e di umanità dentro questa natura. Da questo dibattito, in futuro, nascerà – si spera – una nuova Politica.
Stefano Cergolj
Perito informatico ai tempi in cui Windows doveva essere ancora inventato e arcigno difensore a uomo, stile Claudio Gentile a Spagna 1982, deve abbandonare i suoi sogni di gloria sportiva a causa di Arrigo Sacchi e l’introduzione del gioco a zona a lui poco affine. Per smaltire la delusione si rifugia in un eremo fra i vigneti del Collio ed è lì che gli appare in visione Dionisio che lo indirizza sulla strada segnata da Bacco. Sommelier e degustatore è affascinato soprattutto dalle belle storie che si nascondono dietro ai tanti bravi produttori della sua regione, il Friuli Venezia Giulia, e nel 2009 entra a far parte della squadra di Lavinium. Ama follemente il mondo del vino che reputa un qualcosa di molto serio da vivere però sempre con un pizzico di leggerezza ed ironia. Il suo sogno nel cassetto è quello di degustare tutti i vini del mondo e, visto che il tempo a disposizione è sempre poco, sta pensando di convertirsi al buddismo e garantirsi così la reincarnazione, nella speranza che la sua anima non si trasferisca nel corpo di un astemio.
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Amante della letteratura classica, consegue la Laurea in Lettere, indirizzo filologico, con una tesi sperimentale sull’uso degli avverbi nei tes (...)
Torinese, sognatore, osservatore, escursionista, scrittore. Laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Torino e Mast (...)
Classe ‘77, Nadia è nata ad Ischia. Dopo quindici anni di "soggiorno" romano che le è valso il diploma di Sommelier AIS e un'importante collabor (...)
Ha vissuto in 26 case e in 18 città, disseminando pezzetti di radici in Italia e all’estero: una Cipolla nomade più che viaggiatrice. Ma non più (...)
Mi presento, sono Rachele Bernardo, annata 1968, ribelle quanto ME. La passione per la scrittura risale agli spensierati anni giovanili, tuttavi (...)
Giornalista free-lance, milanese, scrive di vino, grande distribuzione e ortofrutta, non in quest'ordine. Dirige il sito e la rivista dell'Assoc (...)
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È nato a Novara, sin da giovanissimo è stato preso da mille passioni, ma la cucina è quella che lo ha man mano coinvolto maggiormente, fino a qu (...)
Economista di formazione, si avvicina al giornalismo durante gli anni universitari, con una collaborazione con il quotidiano L'Arena. Da allora (...)
Nato il 22 febbraio 1952 a Pavia, dove risiede. Si è laureato nel 1984 in Filosofia presso l'Università Statale di Milano. Dal 1996 al 2014 è s (...)
Giornalista cresciuto con Montanelli al giornale, si occupa da sempre di agricoltura, agroalimentare enogastronomia e viaggi. Ha lavorato tra gl (...)
Figlio di un musicista e una scrittrice, è rimasto da sempre legato a questi due mestieri pur avendoli traditi per trent’anni come programmatore (...)
Sociologo e giornalista enogastronomico, è direttore responsabile di laVINIum - rivista di vino e cultura online e collabora con diverse testate (...)
Di formazione tecnica industriale è stato professionalmente impegnato fin dal 1980 nell’assicurazione della Qualità in diverse aziende del setto (...)
Laureato in Filosofia e giornalista professionista, lavora al Mattino dove da anni cura una rubrica sul vino seguendo dal 1994 il grande rilanci (...)
Maestro Assaggiatore e Docente O.N.A.V., Delegato per la provincia di Lecco; svolge numerose attività come Docente presso Slow Food, Scuola de L (...)
Sommelier e master sul servizio vino e relazione col commensale, ha tenuto alcuni corsi in area territoriale del Pavese di approccio/divulgazion (...)
È Sommelier e Degustatrice ufficiale A.I.S. rispettivamente dal 2003 e dal 2004; ha sviluppato nel suo lavoro di dottorato in Industrial Design, (...)
Napoletano, classe 1970, tutt'oggi residente a Napoli. Laureato in economia, da sempre collabora nell'azienda tessile di famiglia. Dal 2000 comi (...)
Ha iniziato la sua attività in campo enogastronomico nel 1987. Ha collaborato con le più importanti guide e riviste del settore italiane ed este (...)
Nato nel 1974 a Roma in una annata che si ricorderà pessima per la produzione del vino mondiale. Sarà proprio per ribaltare questo infame inizio (...)
Bolognese dentro, grafico di giorno e rapito dal mondo enologico la sera. Per un periodo la sera l'ha condivisa con un'altra passione viscerale (...)
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