Graziano Prà, il Soave, il Valpolicella Superiore e il tappo a vite
Poteva sentirsi appagato, sereno per avere vissuto ben 40 vendemmie, ma nel mondo del vino non si va in pensione, si lavora finché testa e corpo reggono il passare del tempo, finché si ha la spinta per rinnovarsi e intraprendere nuove avventure, perché la vigna e il vino sono il bagaglio immenso di un’esperienza lunga una vita che fa inevitabilmente parte di te e alla quale difficilmente rinunci. Sto parlando di Graziano Prà, vignaiolo in Monteforte d’Alpone, che lo scorso 22 febbraio ha incontrato un gruppo di giornalisti al ristorante Ercoli 1928, in via Giggi Zanazzo 4 a Roma, nel cuore di Trastevere, grazie al supporto dell’agenzia Zedcomm, rappresentata da Carlotta Flores Faccio.
Il Soave e le 40 vendemmie
Non potevo certo perdermi una simile occasione, sapendo che Graziano non si sarebbe limitato a presentare i suoi vini, ma è arrivato nella capitale per parlarci di una serie di novità, a partire dalla commemorazione dei suoi 40 anni di vendemmie con un’etichetta speciale del Soave Classico “Otto” 2023, il primo vino prodotto quando, nel 1983, fondò l’azienda con il fratello Sergio, esperienza condivisa fino al 2007.
Graziano Prà (che in dialetto veneto significa “prato”) ci spiega che la scelta di festeggiare le 40 vendemmie con l’Otto non è casuale, in esso è racchiuso un pezzo importante della sua vita, infatti “Otto” è anche il nome che ha dato al suo amato Border Collie, che lo ha accompagnato fedelmente per quindici anni, un cane meraviglioso di grande sensibilità e intelligenza; scherzosamente Graziano ci ha detto: “l’unica cosa che non sono riuscito a insegnargli è a potare, gli mancava la manualità con le forbici”.
L’Otto viene prodotto mediamente in 300mila esemplari, si potrebbe definire “vino d’entrata”, ma sarebbe un errore credere che non abbia personalità e qualità da vendere. La versione 2023 ha una freschezza di frutto agrumato davvero invitante, accompagnata da nuances floreali, mentre al gusto la leggera presenza di carbonica (che Graziano ama e ha lasciato che si sviluppasse naturalmente) stimola la salivazione e spinge a sorseggiarlo con la selezione di salumi e formaggi e lo spettacolare “Carciofo alla giudia” proposti da Ercoli.
Graziano produce altre tre versioni di Soave, noi ne abbiamo assaggiate due: il Soave Classico Staforte, nato nel 2004 e vinificato solo in acciaio (quando in quel periodo andava molto l’uso della barrique), che nell’attuale millesimo 2021 si è rivelato ampio e complesso, molto fine, con una spiccata mineralità e un finale decisamente sapido.
L’altro Soave Classico è indubbiamente il bianco di punta, ottenuto dal cru Monte Grande, età media delle viti 60 anni, annata 2021, 70% garganega e 30% trebbiano di Soave; il trebbiano viene raccolto a metà settembre mentre la garganega subisce il taglio del tralcio con la prima luna calante di settembre e resta ad appassire per circa un mese in pianta. Affina per 10 mesi in botti di rovere di Slavonia da 30 Hl.
Il risultato è un bianco superbo, si sente quanto lavoro e ricerca c’è dietro, note di miele di acacia, nocciola, frutta esotica, agrumi maturi, bocca salina, minerale, con grande spinta espressiva e una persistenza quasi infinita. Perfetto compagno di una gustosa “Pasta cacio e pepe con Riserva del Fondatore”.
Il tappo a vite
Graziano è uno dei tanti produttori che ha dovuto combattere anno dopo anno per eliminare una volta per tutte i problemi generati dai tappi di sughero nel vino. Non parliamo di TCA, che ormai è abbastanza raro incontrare e, comunque è facilmente riconoscibile all’olfatto, ma piuttosto di quelle piccole devianze che trasformano il vino portandolo ad espressioni che non gli appartengono, ma che una persona poco esperta non è in grado di attribuire al tappo, come profumi spenti o evoluti, gusto seccante, con acidità e tannino fastidiosi, la sensazione di un vino squilibrato, a volte anche con odori sgradevoli.
L’incontro con Silvio Jermann (che fu il primo a intraprendere la strada del tappo a vite, conosciuto come Stelvin dal nome del suo inventore), Franz Haas, Mario Pojer e Walter Massa fu fondamentale, con loro Graziano ha trovato subito sintonia e una visione condivisa, tanto da avere fondato insieme lo scorso anno il gruppo “Gli Svitati”, il cui nome non lascia dubbi sul loro obiettivo.
In Italia quello del tappo a vite è ancora un problema dal punto di vista commerciale, ancora molta gente lo associa a vini di bassa qualità e in molti disciplinari non ne è ancora consentito l’uso. Inoltre, per poter utilizzare questo sistema di tappatura ci vogliono macchine imbottigliatrici specifiche dal costo elevato; in pratica, avere in cantina due linee di imbottigliamento separate non è proprio una passeggiata.
Ciò nonostante, le cattive esperienze fatte con partite di vino alterate e inevitabile danno d’immagine, stanno spingendo molti produttori a considerare tappi alternativi al sughero, e lo Stelvin sta suscitando un sempre maggiore interesse.
Graziano Prà ha iniziato a usare il tappo a vite proprio con il Soave Otto, nel 2010, quando finalmente il disciplinare ne ha consentito l’uso per alcune tipologie di vino.
Il Valpolicella Superiore
L’incontro da Ercoli aveva come scopo principale farci conoscere il nuovo vino di Graziano Prà, il Valpolicella Superiore 2020, che racchiude in sé due importanti valori: l’uso del tappo a vite e l’emblema della Valpolicella. Come? Non è l’Amarone il vino simbolo? No, è un vino con una propria storia ma la cui evoluzione e il forte aumento produttivo sono frutto di scelte commerciali, per molti anni è stato il vino rosso veneto più richiesto all’estero, non è un caso che venga chiamato semplicemente “Amarone”, “della Valpolicella” è un elemento secondario. Non è la pur lodevole e tradizionale tecnica dell’appassimento sui graticci a rappresentare il vino della Valpolicella, ma il per troppo tempo trascurato Valpolicella nella versione “Superiore”, ovvero un vino ottenuto dalle classiche uve corvina, corvinone e rondinella, di carattere, ma senza arrivare a quella potenza alcolica e struttura che hanno reso certi vini assai difficili da bere durante un pasto.
In realtà l’intenzione di Graziano è quella di tornare a proporre in tavola vini che abbiano qualità gastronomiche, che venga voglia di bere e difficilmente restino nella bottiglia.
Il Valpolicella Superiore dovrà rappresentare, quindi, il vino simbolo del territorio, una “visione” che stanno abbracciando molti produttori della nota denominazione veronese, ma che Graziano intende ulteriormente elevare, con l’obiettivo di porre questo vino a cavallo fra il Valpolicella Ripasso e l’Amarone, sia qualitativamente che come fascia di prezzo. Per questa ragione ha scelto di puntare a una maggiore struttura e complessità attraverso un leggero appassimento naturale in vigna per circa un mese, non per scimmiottare le altre due tipologie, ma per ottenere un vino con una propria personalità partendo da uve comunque raccolte in vigna.
Devo dire che sia io che il collega Giampaolo Gravina eravamo piuttosto scettici su questa scelta, poiché ci sembrava più logico evitare totalmente l’appassimento a vantaggio di una bevibilità e scioltezza del vino di cui si sente da tempo la mancanza.
L’assaggio, però, ci ha ampiamente smentito, la sensazione dell’uva appassita è del tutto assente, regna la freschezza, questo perché le vigne si trovano a circa 500 metri di altitudine (ecco perché il leggero appassimento si rivela necessario), in condizioni ideali per avere ottime escursioni termiche e garantire una naturale predisposizione alla fruibilità del vino. Anche il passaggio in tonneaux è dosato alla perfezione, il vino è libero da percezioni boisé ed esprime un frutto vivo e carnoso, in un’atmosfera di puro godimento, tanto che chiedere un bis è stato automatico! Ha svolto alla grande il suo compito con l’ottimo “Reale di Vitella glassata al miele”.
Se avevo qualche perplessità sulle scelte di Graziano, l’assaggio ulteriore del Valpolicella Superiore Ripasso 2021 e dell’Amarone della Valpolicella 2017 mi hanno definitivamente rasserenato. Neanche in questi due vini ho sentito quella fatica che fin troppo spesso mi è capitato di percepire in altre occasioni. Il vignaiolo di Monteforte d’Alpone ha vinto su tutti i fronti, ha capito quali sono le caratteristiche delle sue vigne nel Soave e in Val d’Illasi, ha saputo interpretare i suoi vini sempre in direzione della bevibilità, secondo la sua visione e non seguendo pedissequamente la corrente e i volubili mercati.
Roberto Giuliani