In Borgogna c’è qualcosa di così antico e profondo nel legame tra l’uomo, la vigna, la terra e i sassi, quale non si avverte in nessuna altra area viticola del mondo. Forse per questo, al contrario di quanto accade per altri luoghi già visti, ogni volta che ci torno ritrovo intatta la stessa emozione. Ai primi di febbraio sono stato invitato da un caro amico e prestigioso produttore di Barolo, Aldo Vajra, ad accompagnarlo a Beaune, per partecipare a una grande degustazione pubblica di vini di vignaioli francesi e italiani, la “San Vincenzo dell’Amarone“. Con noi anche una giovane stagista neozelandese, Sophie Harris. San Vincenzo è il patrono dei vignaioli , mentre L’Amarone, oltre al noto vino veronese, è un ristorante italiano di Beaune, il cui proprietario, Alberto Iacono, è deus ex machina di questa spettacolare kermesse dove non ci sono né sommelier compassati né cristalli di Sassonia, ma in compenso una sfilza di grandi vini da degustare, in un’atmosfera rilassata, per non dire popolare. Alberto ha tutte le carte in regola per essere inquadrato nella categoria degli “osti appassionati e matti”. Motivo che rende una visita al suo ristorante, per chi si reca in Borgogna, più che opportuna, necessaria: il viaggiatore verrà meno per una volta alla buona regola di non mangiare italiano quando si va all’estero, ma ne sarà valsa la pena. L’Amarone occupa un fabbricato in un periferico quartiere di alberghi e commerci, non lontano dall’uscita autostradale della capitale della Côte d’Or, e si presenta come una pizzeria ricca di simboli di italianità. Non mancano tricolori appesi e persino bandane tricolori in testa ai pizzaioli. La cucina, oltre alle ottime pizze, offre buoni piatti e una smisurata scelta di vini di vignaioli, francesi e italiani: chi fosse entrato per caso troverà quindi qualcosa che va molto al di là delle sue aspettative. Alberto acquista addirittura partite di vino “en primeur” per il suo locale alla famosa asta dell’Hospice di Beaune. Liberté Jonathan Nossiter afferma, forse con ragione, che il mestiere di vignaiolo è uno degli ultimi a consentire una grande libertà, almeno a chi ha il coraggio di prendersela. Una piccola produzione, una buona immagine, un rapporto cordiale e leale con i clienti consente al “vignaiolo indipendente” di fare, in sostanza, i vini che piacciono a lui, e ai suoi amici, più che inseguire mode, tendenze di mercato, dettami di critici onnipotenti o commenti di blogger ora estatici, ora velenosi. Libertà anche di offrire i propri vini in degustazione ad un pubblico vasto ed eterogeneo, composto tra l’altro, in gran parte, di altri produttori, senza preoccuparsi di contabilizzare il tempo dedicato e il ritorno economico a breve; libertà di dedicare un piccolo spazio della loro vita al piacere di incontrare appassionati di vino e colleghi, scambiare con loro esperienze e sentimenti. Questa è stata ed è la “San Vincenzo”.
Egalité Tra gli espositori c’erano piccoli viticoltori, conti e marchesi. Nei grandi “terroir” del mondo il blasone del “cru” conta più del titolo o del rango del proprietario. In Borgogna, in particolare, ci sono singoli cru con ottanta proprietari diversi, e qualcuno fa una pièce o due di quella denominazione (la pièce bourguignonne è leggermente più grande, 228 litri, e più panciuta della barrique bordolese); capita anche di vedere nelle piccole cantine “feuillette” di rovere da 114 litri, pari a mezza pièce, per non rompere la partita di un “cru” (non so perché, ma in Italia non mi è mai successo…). Ma non per questo il vino vale di meno, e non per questo il produttore è meno rispettato. Alla “San Vincenzo” ogni produttore porta due vini, e ha lo spazio di una botte per farli assaggiare. Gli italiani hanno le botti cerchiate in tricolore. Nessuna area vip, nessuna posizione privilegiata, nessun (almeno credo) “succhiaruote“, secondo la notevole definizione ciclistica di Carlo Macchi, cioè quei furbacchioni che non partecipano agli eventi ma approfittano della presenza in zona di giornalisti e operatori per trascinarli nella propria cantina senza pagare dazio.
Fraternité Sebbene non manchino tra i viticoltori di ogni nazione la rivalità e a volte persino l’odio tra vicini, ci sono persone (Alberto Iacono è tra queste) e circostanze capaci di far emergere e rinsaldare tra i vignaioli un sentimento di fraternità che attraversa i confini delle nazioni e non solo dei cru. Questo sentimento esiste davvero, e chi frequenta questo mondo ne ha esperienza. Non è così evidente nella quotidiana lotta di ciascuno per la sopravvivenza, ma è più forte di quanto si creda, e rappresenta l’antidoto alla meschinità e alla maldicenza che purtroppo ogni tanto ancora segnano i rapporti tra colleghi viticoltori, con grave danno all’immagine dei loro territori. Per questo momenti di incontro e di condivisione come questo, che per tante ragioni non possono essere frequenti, sono particolarmente importanti. Gli ospiti stranieri sono stati divisi in gruppi di 4-5 persone e ogni gruppo ha visitato, nel pomeriggio che ha preceduto la degustazione, due cantine di vigneron, di norma una più specializzata sui rossi e una sui bianchi. Al nostro gruppo sono toccati:
Lecheveneaut, Nuits St. George Lo so: il termine croccantezza indica una sensazione tattile, e ad usarlo per un vino si rischia di passare per fanatici e iniziatici. Eppure i vini vanno masticati: alcuni sono molli, altri duri, altri croccanti. Questi sono croccanti. Negli assaggi da botte dei 2010 che ci ha proposto l’ottimo Vincent, malgrado una lieve riduzione iniziale, dovuta al momento evolutivo del vino, la freschezza, la purezza, l’intensità del frutto e la densità dei tannini si piantavano come tante frecce nel centro del bersaglio, facendo riflettere sul fatto che difficilmente altre zone del mondo, pur potendo produrre buoni Pinot noir, riescono ad esprimere una sintesi tanto cristallina. Alcuni più soavi, come lo Chambolle Musigny, altri più “masculine” secondo la definizione di Vincent, come i Nuits St George, altri più “scuri” nella loro impronta di ciliegia nera, come il Morey St Denis Grand cru Clos de la Roche, tutti del 2010, tutti carichi di promesse. Tra gli imbottigliati ricordo soprattutto il Gevrey Chambertin 2009, malgrado la giovinezza molto pronto e rotondo, come spesso lo sono i vini di quell’annata.
Ballot Millot, Meursault Anche il giovane Charles Ballot ha scelto di offrirci in degustazione vini ancora “in fasce”, addirittura del 2011. Quindi fruttati e floreali intensi e spigoli vivi in bocca, mentre le note minerali sono ancora sotto traccia. Buonissimi iI Meursalt Perrières 2011 (1er cru) e il Meursault Genévrières (1er cru) della stessa annata. Eccellente e già più evoluto lo Chassagne Montrachet Morgeot Blanc (1er cru) del 2009, questo da bottiglia. Nel corso della serata, alla degustazione pubblica, non ho avuto modo di fare molti assaggi. Ricordo lo Châteauneuf du Pape 2007 del Domaine de la Jaufrette, selvatico e ricco di suggestioni mediterranee, e il Rosso di Montalcino Fanti 2009, che mi ha fatto pensare a quella ciliegia appena rosa, bianca sul lato che non prende il sole, che nel Monferrato chiamiamo grafiùn: profumi tipici degli ambienti e delle annate di grande luminosità, per un vino abbastanza facile ma di grande fascino. Per finire, senza dubbio, il Barolo Bricco delle Viole 2007 di Vajra. Non per patriottismo, sentimento che raramente mi scalda il cuore, sia come italiano che come piemontese: ma, dovendo evacuare la sala per qualche emergenza, sarebbe stata questa la bottiglia che avrei afferrato nella fuga.
Ripasso. Due o tre cose sulla Borgogna del vino È un’area viticola con una forma allungata in direzione Nord Sud, che corrisponde ad alcune dorsali collinari parallele. In cima alle dorsali non ci sono mai vigneti ma solo boschi, le pendici invece sono vitate ed in particolare il versante orientale. Complessivamente conta quasi 30.000 ettari di vigneti e la zona più rinomata, la Côte d’Or (divisa a sua volta in Côte de Nuits e Côte de Beaune) ne somma circa la terza parte. Vi si coltivano principalmente due vitigni: il Pinot nero per i vini rossi e lo Chardonnay per i bianchi. Nelle zone meno pregiate, più prossime ai fondovalle, dove si può rivendicare solo la AOC regionale, ci sono altri due vitigni, uno bianco, l’Aligoté e uno nero, il Gamay (Il Bourgogne Passe Tout Grains è un blend di Gamay e Pinot nero), oltre a piccole quantità di Pinot blanc e Pinot gris. Il sistema delle denominazioni è piuttosto complesso ma segue una logica stringente, piramidale: alla base la citata AOC regionale (Bourgogne), con il 51,5% della superficie; poi la denominazione comunale, più pregiata, che riporta il nome del paese (come Beaune, Mercurey etc.) e occupa il 36,5% della Borgogna viticola; ancora più in alto le denominazioni dei paesi più vocati seguiti dal nome della vigna (premier cru), per il 10,5% della superficie; al vertice della piramide i Grand cru, vigneti di dimensioni variabili, da pochi ettari a poche decine di ettari. I Grand crus sono 32 in Côte d’or e uno a Chablis (più a Nord) e occupano solo l’1,5% della superficie vitata.
Maurizio Gily
Fonte: www.vins-bourgogne.fr
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