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Gabriele Succi e i suoi vini della Serra dei colli di Faenza

Costa Archi

La Serra faentina costituisce l’ultima propaggine dell’Appennino sopra Castel Bolognese, sulle dolci colline che sono rimaste ancora in parte ammantate di boschi e di parchi e da cui si ammira un panorama vastissimo su centinaia di case coloniche e terreni coltivati fin dall’epoca dell’impero romano. Per la sua esposizione e il suo clima, la Serra faentina è stata la zona preferita dalle famiglie gentilizie romane, come testimoniano i reperti archeologici qui ritrovati, tra cui il cippo sepolcrale dei Fulvii e i resti di una villa romana nel podere Frega. Non mancano ville e località magnifiche, fra cui la Villa Zauli-Naldi con il suo parco all’inglese e la Villa Archi. Nel letto del Rio Sanguinario, proprio sotto la chiesetta di Sant’Apollinare di Bergullo, c’è un sentiero che scende fino ai “buldur ‘dla Sèra“, piccoli vulcanetti con soffioni attivi da cui, all’incirca ogni minuto, si alzano dal fondo bolle di fanghiglia grigiastra fredda e salata che, quando si rompono, fanno un rumore simile a quello della stappatura veloce di una bottiglia. Questi affioramenti non sono stanziali, ma si spostano, cioè possono seccarsi in un luogo per ricomparire da un’altra parte fra le vigne, anche dall’altra parte del Rio, sotto la chiesetta di Santa Maria della Serra.

Costa Archi vigneti

Gabriele Succi vive e lavora proprio a un tiro di schioppo da qui, in una cascina mezzadrile della fine del 1800 che si chiama Ca’ Beneficio, costruita da un bisnonno materno, ereditata prima dai nonni Giambattista Costa e Gabriella Archi (da cui il nome dell’azienda: Costa Archi) e poi dalla mamma Maria Grazia Costa. Diversamente dai comprensori circostanti, dove le bonifiche idrauliche del territorio avevano privilegiato l’agricoltura estensiva con una forte presenza di braccianti ed era nato un grosso movimento cooperativo, nei colli faentini del dopoguerra predominavano le famiglie coloniche autosufficienti o con pochissimi braccianti, fino all’evoluzione dalla mezzadria alla proprietà coltivatrice diretta. Fino agli anni ’60 la produzione agricola aveva un assetto pressoché immutato dall’inizio del secolo, con una miriade di colture erbacee e arboree in armonia con l’allevamento zootecnico.
La vecchia viticoltura era basata sul singolo filare, detto ”piantata”, dove la vite era sostenuta da tutori (olmi, pioppi, gelsi, aceri oppure alberi da frutta come quelli delle pere ”more” e ”volpine”), in genere posti ai confini dei poderi e che fornivano anche l’uva, ma soprattutto le foglie per alimentare il bestiame e i bachi da seta, il legname da opera e la legna da ardere. Una sorta di ciclo chiuso destinato sostanzialmente all’autoconsumo e al mercatino locale. Nel dopoguerra invece i poderi hanno dovuto adeguarsi ai mercati e convertire la loro struttura in azienda agricola, un sostanziale mutamento che ha introdotto anche la vitivinicoltura specializzata, dopo le fondamentali ricerche dell’università di Bologna per il miglioramento dei tre vitigni tipici albana, trebbiano e sangiovese. Ne è scaturito subito un radicale miglioramento della qualità dei vini che qualcuno ha definito, non a torto, una sorta di ”miracolo enologico” della Romagna.

Costa Archi vigneti

Nei primi anni ’60 il nonno Giambattista aveva piantato non più filari, ma vigne sui terreni di sua moglie Gabriella, puntando sull’Albana e battendosi per ottenerne il riconoscimento della DOC di allora insieme con il dott. Pasquale Baccherini. Ma quel vino veniva ancora fatto solo per il limitato consumo famigliare e fino al 2003 anche la mamma Maria Grazia ha continuato a coltivare le vigne utilizzando esperti braccianti per conferire le uve alla cooperativa locale o ad altre cantine private. Allora non c’era soddisfazione a fare un vino di alta qualità che comunque non veniva premiata dai prezzi di mercato. Ecco perché non va dimenticata l’opera del dott. Alteo Dolcini, artefice di tante iniziative per Faenza e per la Romagna, fra cui l’avvio alla ricerca e alla sperimentazione del centro di Tebano e la creazione, nel 1962, dell’Ente Tutela Vini con il marchio del Passatore.
Alla fine degli anni ‘80, uno zio portò in dono una bottiglia di Brunello di Montalcino della Tenuta di Sesta e Gabriele ne rimase talmente folgorato che decise di conseguire la laurea in scienze agrarie, ottenuta nel 1994 presso l’università di Bologna con una tesi su una delle virosi della vite. Rientrando dal successivo servizio militare, nel 1995 aveva iniziato a occuparsi in prima persona dell’azienda e ne era diventato il titolare, perciò si è dato da fare per realizzare il sogno di produrre un sangiovese buono come quello portato dallo zio, che lo aveva tanto impressionato alcuni anni prima.
Dopo un grande lavoro di ricerca geologica e di studio dei terreni (anche sull’origine di quelli dove sono piantate le sue viti), Gabriele aveva deciso di andare controcorrente (gli altri vitivinicoltori puntavano sulle uve bianche) e di piantumare con le uve rosse una serie di impianti nuovi, basandosi sulla selezione di diversi cloni di sangiovese per cercare di capire la loro diversa attitudine e la miglior destinazione enologica. Attualmente sono presenti ben 9 cloni di sangiovese che vengono utilizzati in modi diversi a seconda dei progetti scelti per i vari vini da vinificare in proprio con le uve migliori. Oltre al sangiovese, ci sono anche i rossi merlot, cabernet sauvignon, ancellotta e i bianchi albana e montù o montuni, come si chiama l’antico bianchino faentino. Tutte le uve destinate alla vinificazione sono raccolte e selezionate a mano.

Costa Archi bottaia

Nonostante proprio nel faentino, nel 1969, Gaetano Tanesini avesse realizzato per primo in Italia la macchina vendemmiatrice e nei tre decenni seguenti anche altre macchine per la potatura e la conduzione del vigneto, a Ca’ Beneficio non c’erano grandi disponibilità finanziarie per acquistarle insieme a tutto il materiale necessario all’enologia moderna e anche gli spazi per vinificare erano ristretti. La cantina era stata ricavata dalla stalla dismessa che si trovava sotto casa. Perciò Gabriele aveva deciso di fare tutto in maniera tradizionale, quindi vinificazione in rosso in piccoli tini da 700 e 750 litri, fermentazione innescata normalmente da lieviti indigeni (i lieviti selezionati si usano soltanto in casi di estremo bisogno, quando l’annata porta le uve a concentrazioni zuccherine troppo elevate). Lunghe macerazioni, follature manuali per mantenere la vinaccia a contatto con il mosto piuttosto che rimontaggi e travasi, una leggera filtrazione soltanto prima d’imbottigliare. Tutto a temperatura ambiente, senza controllo.
In campo però è stato rinnovato completamente il parco macchine aziendale che era sicuramente inadatto a coltivare in modo efficiente, ma sempre con il proposito di scegliere il meglio degli strumenti progettati per il rispetto della natura, allo scopo di applicare i disciplinari della lotta integrata. I suoli sono composti da argille rosse evolute o da altre argille più gialle e ricche di depositi calcarei (detti ”cervelli di gatto”).
L’esordio è avvenuto nel 2003 con il Beneficio, un taglio di merlot, cabernet sauvignon e sangiovese che si produce solo nelle ottime annate. Nel 2004 è uscito l’Assiolo, il primo sangiovese in purezza con il nome del gufetto notturno locale, seguito dalla riserva Monte Brullo (2 ettari in affitto fino al 2016) e quindi dal GS, acronimo di Glauco Succi, il padre, mancato nel 2011), una produzione limitata di 2.000 bottiglie al massimo, da un vigneto piantato nel 2009. Adesso gli ettari sono 11 in un corpo unico, ma fino al 2016 erano 13 in due corpi: 11 nel podere Beneficio, tutti di proprietà, e 2 nel podere Monte Brullo, che era in affitto, non più rinnovato.

Romagna Sangiovese Serra Riserva ”Monte Brullo” 2015 Costa Archi

Romagna Sangiovese Serra Riserva ”Monte Brullo” 2015, Tenore alcolico: 14,5%
Proviene da un’unica vigna presa in affitto fino al 2016 che era coltivata a sangiovese di biotipo romagnolo, ma il contratto non è più stato rinnovato. Conviene portarsi a casa tutte le bottiglie possibili di questa riserva del 2015 già in commercio e anche di quella del 2016 ancora in affinamento perché è un vino che invecchia benissimo e migliorerà ancora almeno nei prossimi 5 anni, se non 10. Peccato davvero, perché venendo a mancare questo Romagna Sangiovese Serra Riserva, s’impoverisce il territorio intero, dato che è un vino in perfetto equilibrio tra il fruttato e il legno ed è pure un raro esemplare di riserve di sangiovese fatte artigianalmente.
Fermentazione con lieviti indigeni in piccoli tini da 700 litri con macerazione per circa 20 giorni e malolattica spontanea, tutto senza controllo della temperatura. Maturazione in tonneaux di più passaggi per 12 mesi, 24 mesi in vasche di cemento e 12 mesi in bottiglia. Per gustarlo meglio, andrebbe versato in caraffa almeno un paio d’ore prima di servirlo a una temperatura ideale tra 18 e 20 °C. Il colore è rubino intenso, profondo, trasparente, con riflessi granati. All’attacco sprigiona gli aromi di caramella alla fragola, marasca matura, ibisco e lampone. Il bouquet si arricchisce di amarena, mora di rovo, prugna e rabarbaro con sfumature floreali di rosa rossa e rosa canina.
In bocca si confermano gli aromi fruttati che si fondono con leggeri toni di spezie dolci, cuoio, macchia mediterranea e un accenno di goudron. Vino di grande freschezza e bevibilità, di buon nervo, ampio, complesso, potente, con tannini vigorosi ma ben levigati, che infonde una piacevole sensazione di calore e per nulla pesante. Il finale è armonioso, rinfrescante, molto godibile, leggermente marascato, balsamico, sapido e persistente. Mi ricorda molto il Brunello di Montalcino. Un melodioso canto del cigno. Chapeau bas!

Romagna Sangiovese Serra ”Assiolo” 2016

Romagna Sangiovese Serra ”Assiolo” 2016
Le sue caratteristiche ve le scrivo dopo, scusatemi. Mi ha sorpreso, mi ha commosso. Quando al primo sorso di un vino si sente arrossire subito l’elice delle orecchie si capisce che è un vino artigianale fatto come Dio comanda, la terra obbedisce e il cantiniere sa fare i miracoli. La memoria è corsa a gambe levate ai bei tempi delle scoperte enologiche dell’adolescenza perché si tratta di un sangiovese di Romagna diverso dal solito, che emerge grintosamente dalla massa e richiede tanto di cappello con inchino. Sto scrivendo con gli occhi lucidi, non so se questo pezzo il buon Roberto Giuliani me lo passerà così come sgorga dal cuore.
Descriverne gli aromi mi sarà anche facile, più in là, però le emozioni sono indescrivibili, lo so, non sono mica un poeta. Sì, ho anche pianto mentre scrivevo queste prime righe, di gioia e di speranza. Di vini eccezionali al mondo ce n’è un po’, basta guardare gli elenchi dei punteggi oltre i 95/100 dati dagli esperti e accontentarsi di leggerli perché i portafogli in gran parte si mettono a frignare anche soltanto a sentire la mano che entra in tasca a cercarli. Ma di vini così genuini ce ne sono pochi e, sinceramente parlando, non credevo di trovarne ancora al giorno d’oggi, dove tanti costruiscono in cantina vini che tendono apposta ad ammaliare il gusto dei wine-writers d’oltreoceano e dei buyers che fanno e disfano a piacimento il mercato. Questo no, ha il sorriso pacioccone dei romagnoli del circolo che giocano a carte e a bocce e ne terrò un’altra bottiglia per berlo fra 10 anni, se ci arrivo, sennò se la beva mio figlio o i suoi figli. E adesso che ho l’orecchio tutto rosso posso tentare di descrivervelo.
Questo vino è il frutto di una storia di prove e riprove di vinificazione, mica si è fatto da sé. Genuinità non significa che si fa da solo, ma che la mano dell’enologo accompagna l’uva senza forzarla a diventare vino. Poi ci ragiona sopra, ascolta le reazioni dei famigliari, dei vicini, dei consumatori e ne fa tesoro per le prossime vinificazioni, sempre più vicine al meglio, perché i vini sono fatti per essere bevuti e goduti e non per guadagnarsi le luci della ribalta impressionando le giurie che li valutano con un rapido giro di bocca per poi sputarli.

Costa Archi vigneto

Era stato prodotto per la prima volta con la vendemmia 2004, da parcelle piantate sulle argille rosse dal 1998 al 1999, con 5 cloni diversi di sangiovese romagnolo e toscano innestati su tre tipi di portainnesto e allevati a cordone speronato. Le prime cinque annate sono state fatte maturare in barriques, poi le due successive in barriques e tonneaux e dall’annata 2011 in poi soltanto in tonneaux di rovere francese. La fermentazione è attivata con lieviti selezionati di un ceppo neutro resistente alle variazioni di temperatura, la macerazione dura dai 10 ai 15 giorni circa in piccoli tini da 750 litri di PVC enologico, le follature sono manuali, il cappello delle vinacce è bagnato a secchiate verso la fine, la malolattica è spontanea. Il vino poi matura per 1 anno in tonneaux da 500 litri di più passaggi, quindi affina per 6 mesi in acciaio inox e almeno altri 5 in vetro.
Versato nel calice ancora fresco di cantina ha un colore rosso rubino con riflessi porpora, intenso e trasparente. All’attacco sprigiona un fruttato maturo di ciliegia moretta di Vignola e sfumature di foglie secche bagnate. Il bouquet è netto, pulito, misurato, conferma la ciliegia con tendenza verso quella sotto spirito, si arricchisce di amarena e di prugna. Gli aromi fruttati si ammantano di sfumature di violetta, liquirizia e di un certo non so che di erbe officinali, molto leggero ma di gran piacevolezza perché lo mantiene fresco.
In bocca, infatti, è rinfrescante, ma corposo e succoso, si sente la terra pulita, ha una bella struttura con tannini ben levigati. Finale erbaceo, leggermente amarognolo. Tenore alcolico del 14%. Consiglierei di servirlo sempre fresco di cantina e di mantenere in tavola una temperatura intorno ai 16 °C, perché già a 18 °C l’alcool si avverte di più e i suoi profondi aromi fruttati diventano meno fini, più acri.

Ravenna Bianco ”Le Barrosche” 2018

Ravenna Bianco ”Le Barrosche” 2018
Le Barrosche è un bianco particolare, vinificato in purezza da un antico vitigno, il montoncello che era stato censito per la prima volta nel bollettino ampelografico del Ministero dell’Agricoltura del 1879 e in seguito rinominato montù. Da notare che in dialetto emiliano e in particolare bolognese questo nome ha un’evidente assonanza con ”molt’ù” (molta uva) e, anche se Costa Archi è in Romagna a una manciata di chilometri dall’Emilia, qui lo chiamano montuni, sarebbe più consono chiamarlo bianchetto faentino invece che bianchetta. L’origine del vitigno è ancora incerta tra l’’ipotesi spagnola e quella marchigiana (per somiglianza con l’ascolano montonico). Predilige terreni argilloso-calcarei ben ventilati e freschi, è resistente alle malattie della vite, ha una produzione regolare ed elevata, dona vini leggermente tannici e di buon corpo. La rivalutazione recente di questo vino è dovuta alla sua minore aromaticità e alla sua maggiore sapidità rispetto al Pignoletto, con una sfumatura piccante, che meglio corrispondono alle preferenze della cucina moderna e del fast-food.
Dopo 30 anni di coltivazione di albana, è stato piantato qui in un’unica vigna ai piedi della Serra, è vendemmiato manualmente, vinificato in acciaio inox, compie una malolattica spontanea e si affina per 9 mesi in acciaio inox. Tenore alcolico del 13%.
Giallo dorato chiaro e luminoso, ha un bouquet di aromi di frutta matura, ma soda; albicocca, susina mirabella, ananas, scorza di cedro, ma anche bergamotto con sfumature floreali gialle di asfodelo, ginestra e narciso. In bocca è succoso come un leggero limoncello, il fruttato è ricco e sapido, quasi si mangia come una macedonia. Rinfresca il palato con la sua piacevole acidità e quel tocco di tannino che lo rende secco e asciutto, ma rimane sempre rotondo anche nel finale mentolato che è abbastanza amaricante e persistente da pulire bene il palato, specialmente con caciotte e formaggi vaccini dolci, ancora morbidi o di leggera stagionatura.

Mario Crosta

Costa Archi
loc. Serra, via Rinfosco 1690, Castel Bolognese (RA)
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cell. 338.4818346, fax 0546.656181
sito costaarchi.wordpress.com
e-mail aziendacostaarchi@yahoo.it

Mario Crosta

Di formazione tecnica industriale è stato professionalmente impegnato fin dal 1980 nell’assicurazione della Qualità in diverse aziende del settore gomma-plastica in Italia e in alcuni cantieri di costruzione d’impianti nel settore energetico in Polonia, dove ha promosso la cultura del vino attraverso alcune riviste specialistiche polacche come Rynki Alkoholowe e alcuni portali specializzati come collegiumvini.pl, vinisfera.pl, winnica.golesz.pl, podkarpackiewinnice.pl e altri. Ha collaborato ad alcune riviste web enogastronomiche come enotime.it, winereport.com, acquabuona.it, nonché per alcuni blog. Un fico d'India dal caratteraccio spinoso e dal cuore dolce, ma enostrippato come pochi.

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