La coda di manzo è una vera squisitezza, quand’è cucinata alla vaccinara. Si chiama così perché una volta era molto diffusa fra i vaccinari, come venivano chiamati dai romani i residenti del rione di via della Regola intorno alla chiesa di San Bartolomeo dei Vaccinari ai quali è restato appiccicato a lungo il soprannome di ”vaccinari mangia code”, mentre oggi si chiama vaccinaro il macellaio, venditore di carne vaccina. Una volta questa pietanza era considerata la migliore ”carta da visita” dei ristoranti e delle trattorie di Roma che anche quest’anno si conferma la caput mundi della cucina di eccellenza. Poi però è uscita di moda, come si dice, per diversi motivi. La materia prima, la coda di manzo, non è così buona cucinata in altre maniere più semplici e richiede pazienza nella preparazione e nella lunga cottura, più di altre carni, perciò al giorno d’oggi è difficile avere tempo e voglia di cucinarla alla casalinga e la domanda dopo la seconda guerra mondiale si è ristretta sempre di più fino quasi a scomparire. Di conseguenza, anche i macellai, per non buttarla via dopo inutili permanenze nelle loro celle frigorifere, hanno cominciato a tenersela e a venderla praticamente soltanto dietro prenotazione e piuttosto la danno in mancia (come il rognone, le animelle e altre parti bovine meno “nobili”), ai ragazzi che scaricano nel retro del loro negozio i quarti di bue dai camion provenienti dal macello dov’erano stati scelti e timbrati con il metilvioletto dopo la visita sanitaria.
Fuori dal rione Regola di Roma non la mettono nemmeno più nel menù i ristoranti e le trattorie, se non sono particolarmente conosciuti e frequentati apposta per offrire le tipiche specialità sopraffine locali della tradizione capitolina. Per godersela come si deve, infatti, si devono dimenticare l’aplomb, la raffinatezza, l’eleganza e quel poco che si conosce del Galateo, dato che subito dopo aver assaggiato il primo boccone si capisce che è una pietanza da leccarsi i baffi, cimentarsi nella scarpetta, provare l’ebbrezza contagiosa di spolparla senza coltello né forchetta, semplicemente addentandone i ”rocchi” (le ossa che la compongono) e infilarci le dita per succhiarne le carni più succulente che contengono, per non parlare della voglia di pulirsi pure la bocca con la manica della camicia… alla burina. Cosa che riesce benissimo solo in un gruppo di gioviali amiconi, non certo alla presenza di seriosi avventori o dei bambini da educare a comportamenti più consoni in tavola. E così loro cresceranno a fettine… ma io la ricetta ve la presento lo stesso, poiché è molto semplice da realizzare e chissà che non vi venga la voglia di cucinarla in casa, una buona volta!
Tempo di preparazione e cottura: 5 ore e mezza
Ingredienti per 4 persone:
Procedimento: La coda si vende ormai già porzionata e pulita, ma, nel caso in cui non lo fosse, tagliatela con un coltello da cucina seguendo le giunture delle ossa e ottenendo i cosiddetti “rocchi”. Sciacquate poi i pezzi in acqua corrente e tamponateli con un panno pulito per asciugarli bene. Ammollate intanto l’uva passa in una tazza d’acqua. Tagliate e tritate a cubetti di massimo 3 o 4 millimetri (alla brunoise…) la cipolla, la carota, una sola costa di sedano e un po’ più finemente anche lo spicchio d’aglio. Il resto del sedano va tagliato a pezzetti di un centimetro circa e va messo momentaneamente da parte.
Tagliate a dadini di un centimetro il guanciale e fatelo rosolare con un paio di cucchiaiate di olio extravergine di oliva sul fondo di una pentola larga. Quando, dopo qualche minuto, il guanciale sarà mezzo sciolto, uniteci i pezzi di coda e cuoceteli il tanto che basta a farli sbianchire da tutte le parti, quindi aggiungeteci il trito di verdure, il peperoncino a pezzetti e dopo qualche minuto bagnateli anche con il bicchiere di vino bianco. Alzate la fiamma e lasciatelo sfumare per qualche minuto, quindi aggiungete i pomodori pelati (senza torsoli né bucce) e un paio di mestoli di acqua. Incoperchiate, impostate la fiamma a fuoco medio e controllate ogni tanto la cottura muovendo e rigirando i pezzi di coda, aggiustate di sale e lasciate cuocere finché le carni non iniziano a staccarsi dall’osso. Ci vorrà almeno un paio d’ore. In un altro pentolino lessate i pezzetti di sedano messi da parte e, nel caso che il sughetto della coda si concentri troppo usate un po’ di questo liquido di cottura per diluirlo un po’. Quando la coda è quasi pronta, aggiungeteci questi pezzi di sedano lessati, la manciata di pinoli tostati, quella di uva passa scolata dall’ammollo e un paio di cucchiai di cacao amaro. Abbassate la fiamma e lasciate sobbollire i pezzi di coda nel sughetto ancora per una decina di minuti, rimescolandoli un paio di volte, mentre tritate le foglie del ciuffetto di prezzemolo sciacquato sotto acqua corrente e poi servite tutto in zuppiera con una spolverata, appunto, di prezzemolo tritato.
Gianluca Mirizzi
Il vino consigliato: il ”Totus tuus” Marche IGT Rosso selezione Mirizzi 2020 dell’azienda Montecappone È un ristorante storico romano del Testaccio, l’osteria Checchino dal 1887, a servire da ben 6 generazioni la coda alla vaccinara e anche allora era difficile reperirla fuori dal rione Regola se non si tampinava il macellaio, ma i lavoratori del mattatoio locale consegnavano quella che ricevevano come paga alla sora Ferminia, la figlia dei suoi fondatori, per passare poi a riprenderla a fine turno già cucinata con l’ingrediente che la rendeva una vera squisitezza e che è stato per molto tempo segreto: il cacao amaro. Con guanciale, trippa e coratella, la coda alla vaccinara si è arricchita negli anni con l’aggiunta di uva passa e pinoli per conferirle quel sapore agrodolce che la ingentilisce. La coda alla vaccinara è un secondo gustoso e succulento, a volte pure spolpata e servita in coccio, ma può diventare anche un ottimo sugo per la pasta corta e viene usata perfino come ingrediente nel ripieno di ravioli e tortelli. Io l’ho scoperta a 17 anni nel 1969, quando ero passato per Roma per stare un po’ con lo zio Pierino, la zia Luciana e i miei cugini Luigino e Paola. Nonostante gli enormi impegni nella loro farmacia Magna Grecia presso San Giovanni in Laterano, lo zio si era preso qualche giorno di vacanza per farmi scoprire la Roma della gastronomia e della ristorazione e ogni santo giorno pranzavamo e in locali sempre diversi. Una volta, per farmi scoprire i vini migliori, mi aveva portato anche a Porta Furba. Quella periferia verso Cinecittà e Centocelle era ancora più vicina alla campagna che alla città ed era circondata ancora di verde sebbene in pieno fermento per la costruzione di centinaia di palazzi, dove al numero 904 della Tuscolana c’era un negozio di alimentari interessante, quello che Recildo Bomprezzi da Jesi gestiva con la figlia Rosanna. Non vendeva soltanto vino e liquori, ma anche olio, uova fresche e leccornìe così gustose da far venire l’acquolina in bocca, tanto che era molto frequentato e gli affari andavano benissimo al punto che che Recildo era riuscito nel 1968 a comprare, con altri due soci, l’azienda Montecappone a un paio di chilometri da Jesi, per fare sia vino che olio (da olivi di leccino, frantoio e ascolana tenera di Jesi).
Quando sua figlia Rosanna nel 1988 è diventata la prima donna sommelier professionista diplomata in quel di Roma, il negozio è stato completamente ristrutturato e da semplice punto di vendita è stato trasformato nella moderna enoteca specializzata di oggi. Rosanna vi è rimasta insieme con il figlio Alessandro Mirizzi, mentre l’altro figlio Gianluca Mirizzi, laureato in economia, era andato a Jesi a dare una mano per sviluppare quell’azienda vitivinicola che sono poi riusciti nel 1997 ad acquistare interamente, per recuperare alla grande le viti e gli olivi già esistenti e iniziare il rinnovo e l’ampliamento della cantina. Provo un grande piacere per quegli eccellenti Verdicchio dei Castelli di Jesi che fa, ma sono rimasto sbalordito di come è maturato come imprenditore vitivinicolo. Dopo aver già prodotto in un quarto di secolo una quindicina di vini di successo, Gianluca ”Utopia” si è messo in testa con la moglie Annarita Rossi di riproporre quei vini tipici marchigiani meritevoli di conquistare una rinomanza che gli è stata a lungo negata, bianchi e rossi, nella Selezione Mirizzi, sorta nel dicembre 2015 e contraddistinta in etichetta dallo stemma araldico di famiglia. Per questa selezione dispongono di 6 ettari vitati in cima a una collina in località Costa (coordinate GPS: lat. 43.470766 N, long. 13.150175 E) nell’agro meridionale di Monte Roberto che sono corredati da 3 ettari di oliveti posti dall’altra parte della strada Aguzzana (SP 9) che va dalla vicina Cupramontana fino a Ponte Magno verso la SS 76. Questi terreni si trovano sulle alture della riva destra del fiume Esino e si inerpicano fino a un’altitudine di circa 300 metri s.l.m. su suoli che all’occhio appaiono di colore giallo e di consistenza sabbiosa perché sono composti da formazioni marnose arenacee a granulometria finissima e conglomerati argillosi, il cosiddetto ”membro delle arenarie di Borello”, infatti derivano dall’emersione del bacino marino qui presente in ere geologiche antiche che si è combinato con il successivo riempimento da parte dei sedimenti dalle acque in arrivo dagli Appennini. I vigneti sono coltivati con esposizioni che vanno da est a ovest e sono proprio aggrappati a questa collina che, a causa della pendenza media del 33% e con alcuni picchi che arrivano anche al 45% (si fatica anche a stare in piedi…), è stata insignita dal Centro di Ricerca Studi e Valorizzazione per la Viticoltura Montana con il certificato di ”Viticoltura eroica“ CERVIM. Richiedono infatti una gran fatica in tutti i lavori agricoli, specialmente per quest’azienda che applica la viticoltura biologica certificata in un territorio difficile, dove la sfida è maggiore e può capitare, come nel 2017, di non poter produrre vini da alcune parcelle perché la pendenza non permette nemmeno di entrare in vigna dopo le piogge frequenti e non consente nemmeno di applicare un’efficace difesa dalla peronospora. Dopo il ”Cogito R. vinum rubrum”, che costituisce la decima ”rarità” rossa marchigiana, è un campione di complessità e di struttura ed è realizzato con le uve di grenache presenti da secoli nei terreni delle transumanze, ecco il “Totus tuus”, dal motto mariano di Karol Wojtyła, papa Giovanni Paolo II, tutto eguale al Cogito R. tranne le rese in vigna che sono ancora più basse. Quando le uve sono mature, si scelgono otticamente in pianta i grappoli più spargoli e colorati (per la longevità) e si vinificano secondo tradizione in cemento con bagnatura del cappello di vinacce, bâtonnage 3 volte al giorno nei primi giorni, poi due volte, poi una volta.
Finita la fermentazione, il vino viene tenuto in ambiente saturo di CO2 per evitare la pur minima ossidazione anche con almeno due o tre travasi, quindi viene elevato per 12 mesi in botte di rovere a forma di uovo e viene poi affinato per almeno altri due anni in vetro. Queste botti (egg in inglese e ovum in francese) sono comparse nel 2001 allo scopo di eliminare tutti gli angoli morti delle botti cilindriche affinché il vino possa fluire liberamente e per intero senza alcun ristagno intorno alle pareti grazie ai moti naturali provocati dalla libera circolazione dell’anidride carbonica che agita tutte le sue fecce fini. È così che diventa certamente più omogeneo e complesso, come ho letto in un articolo di Michel Chapoutier, l’enologo del marchio più ammirato dei vini francesi in tutto il mondo per la valorizzazione dei vari terroir, la cura maniacale per la qualità di ogni grappolo d’uva, l’umiltà professionale, l’audacia nelle sperimentazioni e anche il coraggio negli investimenti, dato che le botti a uovo da 2.000 litri, per fare un esempio, costano anche 30.000 euro a Bordeaux. Gianluca ”Utopia” Mirizzi ha investito dunque molto per adottare questo metodo che accompagna il mosto a trasformarsi in vino senza forzare, con la minore manipolazione possibile, rendendo i processi più lunghi, ma meno aggressivi e arricchendo la complessità del bouquet delle note organolettiche. È un programma veramente rivoluzionario, ma l’arte del vignaiolo comporta una responsabilità piena sì di gioia e generosità, ma impegnativa, con l’obiettivo di instaurare un rapporto di fiducia reciproca con il consumatore per fare vini fuori dal comune, di alto livello, con un approccio d’autore e uno stile inconfondibile, vere espressioni del territorio. Il ”Totus Tuus” Marche IGT Rosso 2020 della bottiglia numero 865 sulle 998 più 151 magnum prodotte ha un bel colore rosso rubino limpido con riflessi granati. All’attacco un profumo di piccoli frutti di bosco maturi con un bel ricordo di goudron apre un bouquet meravigliosamente vellutato con aromi di petali di rose rosse e violetta in armoniosa composizione con quelli di un fruttato maturo e morbido di polpa di prugna, corniola, ciliegia nera, confettura di ribes nero. In bocca è di una morbidezza esemplare in una veste molto elegante e di una finezza oserei dire territoriale perché non l’ho mai riscontrata in altre grenache, forse proprio grazie alla sua vinificazione in uovo di rovere. I tannini sono perfettamente addomesticati, il corpo è di una generosità sorprendente, ricorda il ventre danzante di una conturbante baiadera. Al palato si confermano e si sviluppano ancora meglio tutti gli aromi floreali e fruttati con una coerenza che riconosco soltanto nei vini destinati a sfidare il tempo. Nel finale si sente anche il confetto da sposa. Adesso ho un problema: mi era piaciuto così tanto il Cogito R. 2019 da assegnargli il massimo possibile di chiocciole, cinque. Non ne ho sei, ma una distinzione superiore per questo fratello sicuramente maggiore ci starebbe volentieri. È un vero campione di equilibrio e armonia Sarà fortunato chi riesce a conservarlo bene per qualche anno e ci saprà raccontare come si sarà evoluto, ma io non ce la faccio, lo confesso, è troppo buono per dimenticarlo in cantina e ci vorrà uno sforzo notevole per riuscire a farlo. Tenore alcolico del 14,5%. Consiglierei di servirlo a 18°C in calici ampi, stappando la bottiglia anche al momento, perché non necessita di ossigenazione. Lo abbinerei con una marea di pietanze, non solo di carne, ma anche alcune di pesce, perché è eclettico come pochi vini rossi al mondo, cioè va a meraviglia anche da solo, magari per mettere immediatamente di buon umore chi lo beve, però è il classico vino d’amore, d’alcova, fa godere le papille gustative come pochi. La coda alla vaccinara consideratela, allora, uno stuzzicante antipasto…
Rolando Marcodini
Montecappone Proprietari Mirizzi Viticoltori Via Colle Olivo 2, 60035 Jesi (AN) coord. GPS: lat. 43.508049 N, long. 13.204203 E tel. 0731.205761 e 0731.226082
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Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all'ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l'arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un "signor no", eppure lo è stato finché non l'hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l'unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.
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Per quasi 10 anni tra gli autori della guida I Vini d'Italia de L'Espresso, docente di materie vinose ad ALMA - La Scuola Internazionale di Cuci (...)
Non ha certificazioni, non è sommelier, né degustatrice ufficiale del gran Regno. Si occupa di comunicazione e di digital design dal 2002 in una (...)
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Giornalista free-lance, milanese, scrive di vino, grande distribuzione e ortofrutta, non in quest'ordine. Dirige il sito e la rivista dell'Assoc (...)
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Perito informatico ai tempi in cui Windows doveva essere ancora inventato e arcigno difensore a uomo, stile Claudio Gentile a Spagna 1982, deve (...)
È nato a Novara, sin da giovanissimo è stato preso da mille passioni, ma la cucina è quella che lo ha man mano coinvolto maggiormente, fino a qu (...)
Economista di formazione, si avvicina al giornalismo durante gli anni universitari, con una collaborazione con il quotidiano L'Arena. Da allora (...)
Nato il 22 febbraio 1952 a Pavia, dove risiede. Si è laureato nel 1984 in Filosofia presso l'Università Statale di Milano. Dal 1996 al 2014 è s (...)
Giornalista cresciuto con Montanelli al giornale, si occupa da sempre di agricoltura, agroalimentare enogastronomia e viaggi. Ha lavorato tra gl (...)
Figlio di un musicista e una scrittrice, è rimasto da sempre legato a questi due mestieri pur avendoli traditi per trent’anni come programmatore (...)
Sociologo e giornalista enogastronomico, è direttore responsabile di laVINIum - rivista di vino e cultura online e collabora con diverse testate (...)
Di formazione tecnica industriale è stato professionalmente impegnato fin dal 1980 nell’assicurazione della Qualità in diverse aziende del setto (...)
Laureato in Filosofia e giornalista professionista, lavora al Mattino dove da anni cura una rubrica sul vino seguendo dal 1994 il grande rilanci (...)
Esordi giornalistici nel lontano 1984 nel mondo sportivo sul giornale locale Corriere di Chieri. La passione per l’enogastronomia prende forma a (...)
Maestro Assaggiatore e Docente O.N.A.V., Delegato per la provincia di Lecco; svolge numerose attività come Docente presso Slow Food, Scuola de L (...)
Sommelier e master sul servizio vino e relazione col commensale, ha tenuto alcuni corsi in area territoriale del Pavese di approccio/divulgazion (...)
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Napoletano, classe 1970, tutt'oggi residente a Napoli. Laureato in economia, da sempre collabora nell'azienda tessile di famiglia. Dal 2000 comi (...)
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