“U cunigghiu ‘a stimpirata” e Terre Siciliane Rosso Appassimento
Mi voleva bene il mio maestro, Raffaele Favara di Ispica, il primo insegnante meridionale nel dopoguerra su nel profondo Nord, a Busto Arsizio. E gliene voglio anche adesso che è andato a vivere in cielo. Gli sono riconoscente per avermi fatto scoprire le bellezze di quel mondo lontanissimo che allora era la Sicilia, ancora prima di riuscire ad andarci, cosa che ho fatto qualche anno fa, portandogli i miei figli, con i fiori, sulla tomba. Ogni volta che ritornava dal suo paese portava sempre qualcosa di nuovo e sconosciuto, ricordo ancora i primi cedri e il cosacavaddu ragusano, e così mi sono innamorato anche delle pietanze della tradizione contadina iblea, una civiltà in cucina almeno da un paio di millenni in quella che era la Magna Grecia dei Rodii nella Val di Noto.
Ingredienti per 4 persone:
- 1 coniglietto intero da 1,2 kg
- 2 carote medio-piccole (circa 100 g)
- 1 gambo di sedano (circa 60 g)
- 1 cipolla bianca
- 1 foglia di alloro
- 1 peperoncino fresco oppure sott’olio
- 2 spicchi d’aglio sbucciati
- 1 manciata di olive verdi condite, snocciolate e fatte a pezzetti
- 1 litro di brodo vegetale
- 1 manciata di capperi (meglio quelli salati, ma lavati e ripuliti)
- 10 foglie di menta
- 30 g di aceto di vino bianco + qualche cucchiaio per lavare il coniglio
- 1 cucchiaiata di miele
- sale fino quanto basta
- pepe nero macinato al momento a piacere
- 3 cucchiai di olio extravergine di oliva
Consiglio sempre conigli giovani perché sono più teneri, anche quelli selvatici. Se avete la necessità di raddoppiare le dosi perché gli ospiti sono il doppio, procuratevi quindi due coniglietti. Del coniglio la testa si dà al gatto (mai al cane, però!), poiché serve solo per riconoscere, dalla dentatura, che sia effettivamente coniglio e non altro. Il resto va tagliato a pezzi grossi che vanno lavati in una bacinella di acqua e aceto, poi sciacquati sotto acqua corrente (facendo attenzione a eliminare i piccoli residui di osso che si sono scheggiati al taglio), quindi asciugati bene con un canovaccio pulito e/o con carta assorbente da cucina.
In una casseruola a bordi alti fateli scaldare in un paio di cucchiai d’olio e rosolateli per bene da tutte le parti, fino a una bella doratura. Occorrerà almeno un quarto d’ora, ma non più di 20 minuti, quindi toglieteli e posateli in un piatto, conservando il fondo di cottura a cui bisogna aggiungere un altro cucchiaio d’olio, l’alloro, l’aglio e il peperoncino tagliato in due.
Lavate e tagliate le carote e le cipolle a rondelle e il sedano a mezze lune sottili e mettetele tutte insieme a scaldare e insaporire nella stessa casseruola per una decina di minuti, rivoltandole ogni tanto con il cucchiaio di legno. Se il fondo dovesse asciugare un po’ troppo, aggiungete qualche cucchiaiata di brodo.
Togliete l’aglio, aggiungete i pezzi di coniglio, i capperi e le olive verdi a pezzetti, coprite a metà con il brodo e lasciate cuocere a fuoco lento per un quarto d’ora, regolando il sale (e il pepe nero a piacere) da una parte. Girate i pezzi di coniglio e continuate a cuocere per un altro quarto d’ora, regolando il sale (e il pepe) anche da questa parte, fino a quando la carne del coniglio non risulti tenera. Se si dovesse asciugare troppo il brodino aggiungete qualche cucchiaiata di acqua bollente.
Quando il tutto risulterà ben cotto e il sugo di cottura risulterà abbastanza concentrato, aggiungete le foglie di menta, alzate la fiamma e bagnate con l’aceto in cui avrete fatto sciogliere il miele. Fate evaporare bene e spegnete il fuoco. A cottura ultimata bisogna lasciarlo riposare almeno mezz’ora in casseruola per servirlo tiepido, ma la tradizione vorrebbe che ogni pietanza ‘a stimpirata debba riposare almeno qualche ora (perfino un giorno), poiché risulta più buona con gli aromi ben amalgamati. In estate si può servire a temperatura ambiente, in inverno soltanto riscaldata, ma non molto.
Il vino “Quattro Quarti” Terre Siciliane Igp Rosso Appassimento 2017 Cantine Ermes
Grazie agli ultimi ritrovamenti archeologici, ormai è certo che in Sicilia si produceva vino già 6.000 anni fa. Ma la storia di questa cantina è recente ed è cominciata dalla scelta di riscatto sociale ed economico di una cinquantina di giovani viticoltori nel cuore della Valle del Belice tra i comuni di Gibellina e Santa Ninfa.
Questo territorio era stato devastato nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 da un terremoto di straordinaria potenza distruttiva. Cancellate in parte Gibellina, Santa Margherita di Belìce, Sambuca di Sicilia, Salaparuta, Poggioreale, Partanna, Santa Ninfa, Salemi e Montevago, ma 30 anni dopo, guidata dalla famiglia Di Maria, nel 1998 sorge proprio qui una cooperativa giovane e dinamica, concreta e veloce a prendere le decisioni, che acquista le uve dei soci a buon prezzo e vende buon vino sfuso. Rosario Di Maria, poco più che ventenne, ne diventa il presidente e lo è tuttora, affiancato poi da Paolo Di Maria che è il direttore generale di questa che in poco tempo è diventata una delle realtà produttive più importanti dell’Isola, con i suoi 2.355 soci e 10.554 ettari vitati dislocati tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo nei comuni di Gibellina, Marsala, Palma di Montechiaro, Partanna, Salemi e Santa Ninfa (di cui 2.786 coltivati in biologico).
Le tecniche di allevamento più diffuse sono la controspalliera e il cordone speronato, ma in alcune zone particolarmente battute dai venti si usa l’antico sistema ad alberello. A seconda dei terroir che si differenziano per microclimi e origini geologiche dei suoli, i soci coltivano per il 59% del totale i vitigni autoctoni nero d’Avola, nerello mascalese, grillo, catarratto, inzolia, zibibbo e grecanico e per l’altro 41% i vitigni continentali inseriti in seguito come syrah, merlot, cabernet sauvignon, chardonnay, frappato, sangiovese, sauvignon blanc e pinot grigio.
Quest’ultimo, in particolare, è stato impiantato nel momento del boom del Pinot Grigio lanciato da Santa Margherita. La dirigenza della cooperativa aveva colto al balzo il momento favorevole e aveva invitato i soci a produrre anche uve di pinot grigio, arrivando a regalare le barbatelle e ad aprire una sede di stoccaggio in Veneto, a Mansuè nel trevigiano, per non fare arrivare le cisterne dei clienti veneti in Sicilia a prendere mosti e vini base da trasformare al Nord.
Dopo due anni di successo eclatante, la cooperativa aveva trasformato quel magazzino in una vera e propria cantina di vinificazione che è servita anche per il successivo boom del Prosecco, dapprima con uve di glera comprate da terzi e poi aprendo la cooperativa anche nel Veneto, dove oggi ci sono 250 soci conferitori con 1.500 ettari di vigneto allevati con vitigni autoctoni per l’88% e internazionali per il restante 12%. Al centro trevigiano di Mansuè si è affiancata la Pescantina in provincia di Verona. In Puglia è nata la cantina di Mesagne, nel Salento, per produrre Primitivo e Salice salentino. E sull’Etna, nell’ottobre 2018 si è stretta una cooperazione con La Gelsomina che conserva il marchio, ma con Tenute Orestiadi a gestire produzione, commercializzazione e comunicazione della cantina etnea e promuoverne anche attività di enoturismo.
Oggi sono ben 38 i vitigni in produzione e la stagione delle vendemmie dura ben 70 giorni, da fine luglio per il pinot grigio in Sicilia fino alla prima metà di ottobre per il catarratto sull’Etna. Dopo aver consolidato così la base produttiva si è subito aperta una nuova impresa: la politica aziendale per lo sviluppo sostenibile ed ecocompatibile che dà indirizzi produttivi specifici per incidere sulla riduzione dei consumi energetici e della CO2, la gestione responsabile delle risorse idriche, la formazione del personale alle tematiche della produzione nel rispetto dell’ambiente. A questo scopo è stato implementato il Sistema di Gestione Ambientale conforme alle più attuali norme ISO 14001:2004 per il miglioramento del livello qualitativo delle produzioni al fine di tutelare il consumatore dal punto di vista della sicurezza alimentare attraverso le certificazioni ISO 50001:2001, Global Standard For Food Safety (BRC) e International Food Standard.
Il Quattro Quarti Appassimento 2017 proviene, come dice il nome, da 4 uve in parti uguali: cabernet sauvignon, merlot, nero d’Avola e syrah, tutte al 25%. Le viti sono coltivate su terre nere argillose a un’altitudine di 200 metri s.l.m. in terreni esposti a sud-est e allevate a controspalliera con potatura a doppio Guyot per una densità di 3.500 piante per ettaro. I grappoli sono vendemmiati rigorosamente a mano in settembre, a perfetta maturazione. Raccolti in piccole cassette per preservare al meglio l’integrità della buccia degli acini, sono trasferite in fruttaia dove rimangono per circa 20/30 giorni per il lento processo di appassimento e di naturale disidratazione. Dopo questo periodo le uve vengono diraspate, pigiate e fatte fermentare a temperatura controllata per circa 15/20 giorni. Il vino matura successivamente per 4 mesi in tonneaux da 500 litri. Il tenore alcolico è del 14%.
Il vino è di colore rosso porpora intenso e all’attacco sprigiona aromi di ribes rosso e altri piccoli frutti rossi maturi e dolci, ma appena raccolti e non in confettura. Il bouquet diventa ricco ed esuberante e si apre anche alla polpa di prugna essiccata e alla ciliegia sotto spirito. In bocca il fruttato di piccoli frutti rossi è gustoso, succoso, fragrante, sensuale, con un finale piacevole, lungo, al confetto da sposa. Ideale per grigliate e arrosti di carni bovine, capretto in casseruola, agnello al forno e piacevolissimo con i formaggi artigianali locali di stagionatura media e lunga.
Mario Crosta
Cantine Ermes Soc. Coop. Agr.
C/da Salinella, s.s. 188 km 45,5, 91029 Santa Ninfa (TP)
coordinate GPS: lat. 37.8002467 N, long. 12.8712273 E
tel. 0924.67635, 0924.67547 e fax: 0924.67530
sito www.cantineermes.it
e-mail cantineermes@cantineermes.it