Terra ardente e impetuosa, dove non si rinuncia a niente. Terra dove, sebbene si vinifichi in grandissima quantità, “si beve più di quanto si vinifichi”. Così diceva Mario Soldati del Friuli, all’inizio del suo Secondo viaggio, nel 1970, riportando le parole di Stefano de Asarta di Fraforeano. È una terra strana, quella di là del Piave. In effetti passato questo fiume si è ancora per molto in Veneto, ma il dialetto cambia, cambia il territorio, il clima, il letto dei fiumi, che diventano di sasso, ciottoli, sabbia. E così sono anche i terreni adiacenti: un mare di ghiaia, portata verso valle a partire dalle vicine Dolomiti dai fiumi che – continuando verso est, passando il Livenza – diventano sempre più fitti: un intreccio di fili grigi e aridi. Le grave, in tutto il loro fascino. Da un punto di vista viticolo ci troviamo di fronte ad un vigneto molto esteso: 7500 ha, e una delle zone vivaistiche più importanti d’Europa, che producono circa la metà di tutto il vino friulano, anche se purtroppo non sempre ne viene poi valorizzata l’origine, visto che finisce, passando spesso per le cantine sociali, con l’essere venduto sfuso anche in grandi quantità. Ma non è questa la realtà che siamo venuti a conoscere. Novembre ha visto iniziare (ma non concludersi! avete tempo fino a fine mese) per la terza volta la rassegna Pordenone wine & food love, e per alcuni giornalisti e blogger l’organizzazione della Camera di Commercio (e in particolare di Riccardo Vendrame) ha previsto un breve tour nel fine settimana precedente San Martino, per scoprire e comunicare un territorio tanto ricco quanto modesto nel far parlare di sé.
Dopo il primo incontro, venerdì sera, un saluto accogliente dei sapori (che ritroveremo) di questa terra racchiusa tra Livenza e Tagliamento, ci aspetta sabato mattina la scoperta del paese di Sacile, primo comune friulano oltrepassato il confine col Veneto, e attraversato dal Livenza. Nel grigiore di un cielo autunnale, con la musica barocca delle prove per la rassegna musicale prevista l’indomani e le anatre a rigare gli specchi d’acqua in cui si riflette la città, Sacile svela tutto il suo fascino discreto, che odora ancora di Serenissima. Ci lasciamo trasportare un po’ a valle, giusto qualche chilometro dal paese, e a pochi metri dal confine col Veneto, nell’azienda Vistorta, dove Alec Ongaro ci accompagnerà in un piccolo viaggio tra Grave friulane e bordolesi. Varcarne il cancello significa entrare in un giardino dal profumo inglese: sette ettari attorno ad una villa di fine settecento ornata dalla vite americana rosseggiante che si aggrappa alle pareti, e il viale di pioppi cipressini, che – “nelle Venezie” – mi porta sempre a cercare le tracce di una villa o di una barchessa. Due secoli dopo i primi insediamenti, a inizio anni ’80 (di questo secolo), Brandino Brandolini d’Adda porta la Francia in quelle terre – e come lui altri cent’anni prima in tempo d’oidio e fillossera, e mi viene in mente il Bertoli e il suo “Le vigne ed il vino di Borgogna in Friuli“, del 1747. Però il Conte a Vistorta si ispira più a Bordeaux che alla Costa d’Oro: un solo vino, un rosso importante, e le prove con vari vitigni locali e internazionali. Tutto si porta verso il merlot, però. E un Friulano; rimangono e sono presenti altri vitigni, imbottigliati come Conte Brandolini d’Adda. Ma per assaggiarli ci spostiamo oltreconfine, a Cordignano, dopo aver respirato l’aria polverosa degli ampi granai e porticati, e passeggiato nella grande serra delle orchidee.
La Barchessa è la vera zona produttiva dell’azienda (oltre 200 ha, di cui circa 30 a vigna), ma anche qui un tocco di nobiltà, con un ampio giardino, dove un timido sole ci accoglie. Ci addentriamo nei primi aspetti tecnici: certificata biologica da diversi anni, l’azienda mantiene un approccio in campagna che continua in cantina, con gli interventi di natura chimico-fisica al minimo, e l’attenzione nell’indirizzare i processi, siano essi di maturazione che di fermentazione, nella giusta direzione al massimo. Molto cemento, legno piccolo – francese, ça va sans dire – nelle cataste: architettura settecentesca innestata con la giusta quantità di tecnologia. Chiarifica con albume e nessuna filtrazione sono i tratti distintivi di un rosso di grande importanza, frutto dell’assemblaggio di alcune decine di appezzamenti gestiti in base alle differenti esigenze. Finalmente saliamo per l’assaggio. Il Friulano 2012, molto giovane, accenna note vegetali simili al sauvignon, di foglia di pomodoro, poi di frutta matura e appena un ricordo di frutta secca. In bocca si mostra ben equilibrato, elegante, e incuriosisce pensarlo alla prova del tempo. Il Merlot 2009 è ricco, speziato, nei profumi di mora e frutti di bosco, con un tocco balsamico, mentre al gusto tradisce la sua giovinezza, per l’eleganza per ora solo promessa, ma una piacevolezza già raggiunta, con la classica morbidezza del vitigno: raggiungerà col tempo la propria identità. La dimostrazione del potenziale delle vigne di Vistorta è chiusa in una bottiglia su cui è scritto 2002. Bel colore, maturo, i profumi richiamano la mora, la confettura di frutti di bosco, e poi sentori balsamici profondi, di liquirizia e sottobosco. In bocca grande eleganza, persistente nel giocare tra la setosa morbidezza e l’acidità che mantiene la tensione e invoglia a bere.
Ci rimettiamo in viaggio, salendo a Budoia, prime colline pedemontane, per un pranzo a Il Rifugio. Il cielo è tornato ad essere coperto, pioviggina, e i fumi dai camini si mescolano alle nebbie delle vallette. Quale atmosfera migliore per gustare i sapori autunnali proposti dal menu? Un pane al porro e una crema di zucca molto “carica” come inizio. E poi una terrina di petto d’anitra alle castagne, morbida saporita e avvolgente; ravioli di grano saraceno al capriolo con ragù di mele e speck, saporiti e spessi; e ancora il filetto in treccia al guanciale con funghi di bosco e polenta gialla, succulenta carne e gustosa polenta (poteva mancare?) e una crostata alle mele di Budoia con marmellata di arance a chiudere un viaggio tra i sapori «potenti, gustosi, vibrati» di queste terre, un viaggio che non si ferma ma riprende non appena riusciamo a riaverci da questo pranzo pantagruelico. Ci aspetta VCR, il colosso ormai mondiale del vivaismo viticolo, che già quando ai tempi della visita del Soldati esportavano nell’est europeo e in Sudamerica. È un ritorno per me, e stavolta, dopo una rapida visita agli impianti di innesto e lavorazione delle barbatelle, a Casa 40 assaggiamo solo un vino (con l’Università ci si era lasciati andare a meno formalità), uno dei nuovi vitigni frutto di incroci che VCR sta sfornando da qualche tempo, frutto apparentemente della fantasia creativa di qualche ampelografo, ma che in realtà si rivelano spesso interessanti e nei prossimi anni magari andranno ad arricchire la piattaforma ampelografica del vigneto Italia. Passeggiando tra le serre e le basse pergolette dei portinnesti, si consuma il tramonto, e in fretta fa buio. Ci rimettiamo in viaggio per Pordenone dove ci aspetta un laboratorio particolare. Scendendo a Pordenone, ritorniamo appena vicino al greto di Cellina e Meduna, che prima invece abbiamo attraversato, passando direttamente sulla ghiaia di queste terre, questi fiumi senz’acqua. Chissà, cinquant’anni fa, in quell’autunno del 1963, com’erano questi torrenti. Ora sono asciutti, con alcuni cespugli di pioppo, e solo i ciottoli sotto la luce pallida di un pomeriggio novembrino. E capisco un po’ di più questa terra.
In città Sandro Sangiorgi tiene tre laboratori per ciascuna delle due giornate. La sera, prima di cena, riusciamo a partecipare a quello dedicato al Montasio e intitolata “Il significato della seduzione“. In effetti, accompagnare e mescolare fra di loro sei vini e tre stagionature del formaggio è intrigante, un gioco in cui mettere alla prova i propri sensi. Ritrovo il Merlot di Vistorta, e mi conferma quella sua inafferrabilità, mettendo in risalto la speziatura sul frutto e rimanendo un po’ introverso. Mi ha invece colpito il Rosso dell’Arcon, dell’azienda De’ Lorenzi. Torno in qualche modo verso il Veneto, con questo vino, visto che l’azienda è anch’essa sita al confine, a Pravisdomini a sud di Pordenone, non a ovest come Vistorta. Si tratta di un uvaggio di merlot, cabernet e refosco, “regina delle uve friulane”, definita da Levi nel 1877. Sicuramente uno dei migliori interpreti assieme al tocai del territorio delle Grave. Si presentava di un bel rubino, e i profumi portavano all’estate: frutta fresca, ribes, anguria, e poi spezie molto delicate. Si apre molto lentamente, graduale, e continua a svelare sentori balsamici e di chiodi di garofano, di confettura di frutti di bosco. In bocca è dinamico: equilibrio tra le componenti, fugge cambiando continuamente. Abbinato ad un Montasio non troppo vecchio penso sia una gran compagnia per una serata a parlare… delle Grave, ovviamente! Ma anche dei personaggi che erano legati a queste terre: da Pasolini al Vajont di Corona, dalle storie di qualche vecchio vignaiolo a quelle della Grande Guerra, che su queste e quelle terre, più in là, si è consumata. E poi magari una grappa, a tirare tardi…
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