Le carte vincenti della Tenuta Sant’Antonio: intervista a Tiziano Castagnedi
Ci sono cantine e cantine. Produttori e produttori. E c’è quella strana curiosità che spinge ad andare a vedere dove nasce quel determinato vino, magari scoperto casualmente, per capire qual è l’odore che si respira in cantina e incontrare chi lo produce. Il Veneto, poi, con le sue vaste zone vocate al vino, è già sinonimo di garanzia.
Tutto inizia qualche anno fa. Una cena estiva nel cuore di Treviso e la scelta della bottiglia: Scaia! Gli amici del posto non hanno dubbi. È da lì, dopo l’assaggio, che inizia il mio trasporto personale verso un vino dal colore paglierino, con riflessi verdognoli e dal profumo di fiori bianchi, gelsomino e agrumi, fatto con uve di Garganega e Chardonnay. Dall’etichetta semplice, eppure di buon gusto. Non passa molto tempo e lo Scaia mi sorprende ancora una volta: me lo ritrovo all’interno delle pagine di “Wine Spectator” che addirittura gli assegna un premio.
Aspetto il Vinitaly e cerco “i padri” dello Scaia. Con uno strano luccichìo negli occhi comunico note entusiastiche sul vino. Mi mancano altri tasselli per completare il mosaico: visita in cantina e alla tenuta. L’intervista che segue, è stata fatta a Tiziano Castagnedi, uno dei quattro fratelli fondatori della Tenuta Sant’Antonio, situata nelle colline della Valpolicella. Lui si occupa di logistica e della rete vendita per il mercato nazionale, oltre a Svizzera e Germania; Brand Ambassador Italia, mi riceve con il suo sorriso autentico e vivace.
Innanzitutto, come nasce l’avventura della Tenuta Sant’Antonio?
Posso dire che si tratta del risultato di tutta una serie di coincidenze, anche se credo che le coincidenze nella vita, non esistano. I nostri genitori e prima ancora, i nostri nonni, erano produttori di uva e di completare la catena con gli ultimi due anelli, ovvero la vinificazione e la commercializzazione non ne volevano sapere. Furono comunque tra i soci fondatori della cantina sociale, oggi realtà conosciuta come “Collis Group”. Noi siamo quattro fratelli: Armando, il più grande si occupa dell’export in oltre 40 paesi, con almeno 200 giorni all’anno fuori casa. Poi c’è Paolo che dall’uva ci restituisce il vino e Massimo che si occupa degli impianti, dalla legatura, lo sfalcio dell’erba, la potatura, la vendemmia in prima persona. Il nostro percorso è iniziato quasi assieme: partendo dall’aiutare i genitori durante le vacanze estive. E poi ci si innamora di questo lavoro. Negli anni ’90 le cantine sociali guidavano il mercato del vino: noi decidiamo che è arrivato il giusto momento di intraprendere una nuova avventura tutta nostra, con l’esigenza di avere più spazio e soprattutto un futuro solido.
Capita l’occasione di conoscere i fratelli Veronesi proprietari di questa azienda sulla collina che si trova ubicata su Tre Comuni: una parte San Martino Buon Albergo, una parte Mezzane e una parte San Pietro di Lavagno. Dopo innumerevoli incontri li convinciamo a vendere: quello che ci troviamo di fronte è un ettaro di oliveto invaso da malerbe di tutti i generi, privo di strada di accesso, di qualsiasi impianto di irrigazione, un terreno aspro e impervio. Grazie a esperienze fatte come impiantisti in Italia, siamo finiti con il produrre pure il vino Monti Garbi: “garbi” in dialetto veronese significa “povero”, “scheletrico”. Insomma, riusciamo a trasformare quelle caratteristiche di terreno aspro, a favore di un vino molto gradito, morbido, avvolgente e abbastanza tannico con retrogusto speziato. Da uve corvina e corvinone per il 70%, rondinella 20%, croatina e oseleta 10% nasce il nostro Amarone.
Contrariamente a quanto suggerito inizialmente dai cosiddetti “esperti del settore” che ci consigliavano di utilizzare cultivar internazionali, abbiamo tenuto due vigneti storici: uno di cabernet sauvignon e l’altro di chardonnay, tutto il resto invece viti e vitigni del territorio, come appunto corvina, corvinone, rondinella e croatina.
Come si arriva a costruire la tenuta?
Presentiamo il progetto per la costruzione della cantina in quest’area e nel giro di qualche anno, nel maggio del 2000 diventiamo operativi nel piano interrato. Al piano superiore si collocano gli appassimenti per poi completare dopo qualche anno il cuore centrale che noi chiamiamo la “colombaia” dal fatto che sta nella parte più alta. Ci sono poi le sale ricevimento per le degustazioni. Va detto che la scelta di tornare a San Zeno di Colognola ai Colli (VR) dove siamo nati e cresciuti, è stata un po’ una scelta d’obbligo perché la strada per arrivare è molto stretta e quindi il movimento logistico di camion e furgoni doveva attraversare il paese, rischiando ripetuti intralci.
Un po’ un ritorno alle origini…
Esattamente. Qui è posizionato il centro logistico. L’imbottigliamento viene fatto tutto in cantina in località San Briccio di Lavagno (VR). Con i nostri mezzi portiamo tutte le bottiglie in questo centro e successivamente segue la linea del confezionamento. L’ordine nasce qui, senza più sprechi di etichette o errori di destinazione. Abbiamo risolto anche il problema dell’appassimento con due ali di edificio destinate a tale scopo. Logisticamente parlando, ci troviamo in un punto assai strategico: molto vicini al casello di Soave da una parte, il casello di Verona Est dall’altra, su una provinciale assai scorrevole.
Mi parli della zona dove ci troviamo: attorno a noi, colline popolate da viti, con chiese e castelli antichi. Posti che fanno sognare…
Siamo proprio a cavallo tra le due aree più vaste di tutta la provincia di Verona: da una parte la Valpolicella con i nostri 8000 ettari e dall’altra l’area del Soave che sono altrettanti 7000. Una Valle di mezzo, sulle colline, dove si producono vini rossi della Valpolicella: la Valpolicella si divide poi in tre “sottozone”: la classica che è quella più a ovest, la centrale Valpantena e poi c’è la orientale che arriva proprio a ridosso di Soave. Va detto anche, che oggi la vivaistica ci offre delle selezioni clonali non indifferenti. La nuova generazione, cioè ibridi che finalmente ci danno la possibilità di produrre senza il pensiero che patologie più frequenti come la peronospora provocata dalla pioggia e l’oidio provocati dalla ventilazione, compromettano il raccolto. Questi viti ibride riescono ad autodifendersi, con grossi vantaggi per il rispetto dell’ambiente e dell’operatore.
Tutto questo vi permette sicuramente di lavorare meglio: quanto incide sul costo del prodotto?
È veramente un risultato non indifferente quando si arriverà: meno manutenzione agli impianti, mosti assolutamente puliti da residui di fitofarmaci e ambiente più sano. Costi di produzione più bassi e un prodotto che è più salutare. Una frontiera da guardare con grande attenzione e che darà certamente risultati interessanti. Posso dire che gli stessi degustatori hanno dato dei punteggi più alti a questi vini, piuttosto che a quelli tradizionali, il tutto rigorosamente “alla cieca”. È un lavoro lunghissimo in collaborazione con le varie università: sono convinto che sia soltanto questione di qualche anno e avremo anche varietà molto simili alle nostre con questa capacità di autodifesa.
Quanti collaboratori lavorano alla Tenuta Sant’Antonio e quante bottiglie l’anno producete?
I collaboratori sono circa una ventina più gli stagionali, divisi fra cantina e amministrazione/logistica. Le bottiglie prodotte si assestano invece sulle 800mila l’anno. Con brand tradizionali che sono composti da Soave, Valpolicella giovane con Valpolicella ripasso, Valpolicella cru. L’Amarone che è un po’ più strutturato, con il Recioto entrambi tradizionali. Poi ne abbiamo un altro fantasia che appunto si chiama Scaia ed è composto da un bianco, Scaia rosato, Scaia rosso ottenuto dalla vinificazione di Corvina in purezza e poi c’è il Rosato che è invece una vinificazione di uve di Rondinella. Ultimo nato è datato 2011 che si chiama Télos (dal greco antico) che significa realizzazione di un’idea, finalità scopo.
E qual è lo scopo da raggiungere della Tenuta Sant’Antonio?
È quello di riuscire ad avere sul mercato, da proporre al consumatore dei vini che siano privi o quantomeno con quantità molto limitate di solforosa e abbracciare anche quella persona che vuole assaporare un buon bicchiere ma per qualche motivo ha problemi di intolleranza o è particolarmente sensibile all’emicrania etc. etc. Quel che vedo, in questi ultimi anni, è l’aumento costante dell’apprezzamento di queste persone ai nostri vini. Dico spesso che scatta qualcosa di straordinario, eppure difficile da “etichettare”: chi si innamora di questo stile non torna più indietro. Un po’ come è successo a lei!
Dove vuole arrivare a Tenuta Sant’Antonio e quali i prossimi passi? Avete già fatto tutto?
Assolutamente no! Penso spesso ai cugini francesi: in alcune aree sono addirittura arrivati a mettere in testa alla gente l’abbinamento spontaneo del nome della zona al vino, ma non solo. Se pensiamo alla parola “bordeaux”: è diventato un colore (Amarone), la bottiglia “bordolese” la conosciamo tutti o il “bianco Champagne”. Questo per fare degli esempi. Se noi abbinassimo davvero bellezze paesaggistiche al turismo enogastronomico, inventando qualcosa di nuovo che facesse scattare associazioni di idee vincenti, l’Italia tutta si troverebbe a scoprire un nuovo rilancio economico, in un settore dove davvero si può fare la differenza. Ecco, io credo che questa deve essere sicuramente una leva importante, perché ancora troppe persone non sanno dove si trova esattamente la Valpolicella e nemmeno che l’emblema di Soave è rappresentato da un castello. Le carte in regola per fare bene ci sono tutte. Si tratta solo di far conoscere meglio la zona, perché lo spazio c’è. Dobbiamo costruire la “cultura” del bere, che non è soltanto vino. A volte penso ad un paese come la Cina che ancora non è grande consumatrice di vini. La popolazione è talmente numerosa che basterebbe il consumo pro-capite di mezzo bicchiere al giorno, per rendere soddisfatti tutti i produttori italiani.
Può dirsi entusiasta di quanto fatto finora dalla Tenuta Sant’Antonio?
Certamente sì, e questo grazie al lavoro di tutti: dai miei fratelli a quanti collaborano con noi, instancabilmente, giorno dopo giorno. Trovo comunque sia importante che al di là dell’esteriorità dettata dalla bottiglia, sia il contenuto quello che il consumatore deve ricordare come esperienza propria, personale. Come un bel quadro che sappia comunicare al di là della cornice che lo delimita, povera o ricca che sia. Sono felice, ad esempio, quando capita che qualcuno mi saluta dicendo: “Buonasera signor Scaia!”, credendo che sia il mio cognome. In quel momento mi hanno identificato con il mio vino… Stupendo! Scaia ad esempio, viene da “scaglia” che potrebbe ricordare la scaglia del formaggio grana. In realtà stiamo parlando della scaglia di una pietra, sasso bianco tufaceo a strati, che si sgretola per effetto del ghiaccio invernale e delle piogge primaverili.
Per finire: lei cosa beve? Quale dei suoi “figli” è il prediletto?
Di solito amo condividere il mio vino e allora dipende dagli ospiti che ho in casa. Della linea dei vini bianchi io alterno il Télos bianco con il Soave Vigne Vecchie, garganega in purezza, brevemente affinato in botte. Se i miei ospiti amano bere senza andare tanto a impegnarsi, andiamo allora sicuramente con lo Scaia che va bene per tutti i gusti. Poi, non essendoci persone che rifiutano i rossi, andrei con il goliardico Scaia Rosso, corvina in purezza, molto leggero, da bere anche fresco nel periodo estivo. Proseguo con qualcosa di più impegnativo, Valpolicella Superiore La Bandina (frutta rossa, note di ciliegia, tabacco e legno di cedro), per chiudere con i maschietti: l’Amarone e un bicchiere di Recioto per le gentili signore. Questi sono i vini che di solito io propongo, pur lasciando spazio di decidere liberamente. Ma mi creda, qualsiasi sia la scelta, vedo i miei ospiti molto soddisfatti, come dopo una partita a carte dove tutti tornano a casa vincenti.