Scienza, natura e vino: una interessante degustazione di campioni sperimentali di aglianico
Sono da sempre molto affascinato dal rapporto, spesso, irrisolto e contraddittorio tra scienza e vino. In tempi recenti la ribalta conquistata dai vini, cosiddetti, naturali ha riacceso quest’annoso dibattito. talvolta, inasprendo il confronto e conducendo, di frequente, i protagonisti ad arroccarsi su posizioni ideologiche condizionate dal pregiudizio ed impregnate di una sorta di fanatismo dogmatico poco incline allo sviluppo di un dialogo sincero quanto necessario.
Quando ciò accade il confronto risulta sterile, infruttuoso, lasciando spazio, purtroppo, solo a tanta confusione ed alimentando, il più delle volte, equivoci e fraintendimenti. Io sono, ancora, convinto che i produttori seri, i vignaioli davvero intenzionati a produrre vino nel modo più naturale possibile non solo non possano permettersi di ignorare le indicazioni di tipo scientifico che vengono da alcune delle più recenti ricerche sul campo ma, addirittura, che sia ormai divenuto imprescindibile rafforzare, semmai, questo legame e questo tipo di rapporti per aumentare il flusso e lo scambio di informazioni tra due mondi assolutamente complementari in maniera che possano integrarsi e completarsi vicendevolmente. Così quando Boris Basile, ricercatore presso il Dipartimento di Agraria, Sezione di Scienze della Vigna e del Vino, dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, mi ha convocato per far parte di un panel di degustatori per assaggiare alcuni campioni sperimentali di aglianico prodotti per la tesi di un suo giovane dottorando, Giulio Caccavello, non ho saputo proprio dire di no. Nonostante abbia sempre meno la possibilità di dedicare, infatti, tempo alla mia passione vinosa sono questi gli inviti ai quali non posso resistere, le occasioni alle quali non riesco a rinunciare e che non voglio assolutamente perdermi.
Sia per l’unicità dell’esperienza, trattandosi di vini non destinati alla commercializzazione, sia per la possibilità di rapportarmi con chi, solitamente, ad un panel di questo tipo prende parte, mi riferisco, cioè, ad agronomi, enologi e agli stessi “scienziati” (con riferimento, ovviamente, ai membri del team impegnato nella ricerca).
Una squadra, quindi, eterogenea e, allo stesso tempo, mix raro di competenze e di professionalità in grado di generare un’inesauribile sequenza di spunti e riflessioni. E non nascondo un certo imbarazzo ma anche un po’ di sano orgoglio nell’essere stato selezionato per prendere parte alla sessione di degustazione.
A seguire, poi, abbiamo potuto assistere alla presentazione dei principali risultati ottenuti dopo i primi due anni di questa ricerca. Il progetto in questione si svolge, infatti, su un arco temporale di tre anni e fa riferimento a due vendemmie: la 2012 oggetto della degustazione, e la 2013 ancora da imbottigliare. Obiettivo della tesi quella di stabilire un correlazione tra possibili diverse tecniche di gestione della chioma e l’accumulo di zuccheri negli acini allo scopo di ridurre il tenore alcolico del vino.
In termini pratici come intervenire all’interno di una vigna con cimature più o meno spinte e defogliature più o meno estese per ridurre il potenziale zuccherino negli acini e, di conseguenza, il contenuto alcolico di un vino. Mi ricollego a quanto sopra esposto con convinzione per sottolineare come si tratti di interventi assolutamente “naturali” per venire incontro ad una problematica quella di vini eccessivamente alcolici sempre più avvertita dai consumatori. Se sono stati, indubbiamente, nel recente passato, stesso alcuni produttori a spingere su un modello di vinoni molto concentrati ed estratti, con la conseguenza inevitabile di promuovere vini dalle gradazioni alcoliche importanti, per altri produttori non si è trattata di una scelta consapevole.
Questi ultimi si sono, comunque, ritrovati a doversi confrontare con lo stesso problema: da un lato gli effetti in vigna di fenomeni nuovi e pressanti, a tutti ben noti, relativi al riscaldamento globale ed i cambiamenti climatici; dall’altro, contemporaneamente e in direzione opposta, la proliferazione di norme sempre più restrittive sul consumo degli alcolici e il diffondersi di una cultura salutista che hanno contribuito a indirizzare i consumatori verso vini dalle gradazioni alcoliche più contenute.
Se siete come me tra quelli che rabbrividiscono all’idea di vini dealcolizzati attraverso l’impiego di chissà quali diavolerie non potrete che essere contenti di sapere che ci sono giovani ed istituzioni impegnate in questo tipo di esperimenti dove la ricerca di sistemi naturali (in questo caso parliamo, ripeto, di banali operazioni di cimatura e defogliazione) viene portata avanti per ottenere dei risultati che, oggi, sarebbero, facilmente, raggiungibili con semplici scorciatoie di tipo tecnologico (in cantina agendo meccanicamente sul mosto) oppure chimico (nel vigneto adoperando prodotti che agiscono sulla traspirazione delle foglie per limitarne la fontosintesi).
Non vorrei scendere troppo nei particolari, non sono un esperto della materia, inoltre mi sembrano molto più interessanti i risultati, anche se al momento parziali, di questa ricerca (e poi chi fosse interessato ai dettagli potrà ovviamente contattare i diretti interessati). Noi, come ricordato sopra, abbiamo assaggiato i vini della vendemmia 2012, ottenuti da uve aglianico, clone taburno, da piante di circa 15 anni, allevate presso la Fattoria Selvanova di Castel Campagnano, in provincia di Caserta.
Ovviamente, oltre ai quattro vini sperimentali, un quinto è stato preso come riferimento in qualità di testimone di controllo seguendo i normali protocolli aziendali, stesse vigne ma piante prese in cura e vinificate dal giovanissimo enologo aziendale Gennaro Reale. Le quattro tecniche prevedevano: una defogliatura (solo delle femminelle) al 75%, una defogliatura (sempre riferita alle sole femminelle) al 50%, una cimatura a 7 nodi ed una cimatura a dodici nodi. Due tecniche più estreme dunque (cimatura 7 nodi e defogliatura 75%) e due trattamenti intermedi (defogliatura 50% e 15 nodi).
I vini risultavano tutti molto diversi tra loro ma, cosa davvero sorprendente è stata la diversità anche tra le due bottiglie degli stessi vini. Infatti ogni vino è stato degustato alla cieca due volte con risultati spesso contradditori. Sicuramente avrà influito il processo artigianale che ha visto il vino dapprima transitare in grosse damigiane di vetro per essere, poi, sottoposto a successivi travasi e venire, in ultimo, imbottigliato a mano. Le bottiglie dello stesso vino provenivano, ovviamente, dalla stessa damigiana fatto sta che le differenze sono state notate e sottolineate un po’ da tutti.
A conferma del fatto che non è un luogo comune quando si afferma che non esistono due bottiglie, una perfettamente uguale all’altra. Obiettivo del panel di degustazione quello di valutare come le diverse tecniche gestione della chioma possono influenzare, ovviamente, non solo il grado alcolico ma anche e in che modo il profilo organolettico dei vini.
Appurato, infatti, che tutte e quattro le tecniche hanno portato ad una riduzione dell’accumulo di zuccheri nell’uva (a conferma della tesi che è possibile attraverso un attenta gestione della chioma influire sul grado alcolico) bisognava capire se questo non andasse a scapito della piacevolezza sensoriale dei vini.
I quattro vini hanno dimostrato che se nel caso dei due trattamenti più estremi si evidenziavano i tratti più verdi al naso, con tannini più asciuganti al palato, ed una certa incompletezza nel risultato espressivo complessivo finale, di contro i vini ottenuti con i due trattamenti intermedi non sembravano risentirne, affatto, in termini di complessità e maturità. Anzi vi confesso che uno di questi vini che mi è davvero piaciuto moltissimo, direi più di tutti, è stato proprio quello derivato dalle uve ricavate dalle piante con la cimatura a 15 nodi.
Insomma una piacevolissima giornata e una bellissima esperienza.
Fabio Cimmino