Riso, latte, castagne e Dolcetto d’Alba
Un’altra ricetta invernale e ipercalorica, ma, se fa ancora freddo, non è che si possa mangiare un’insalata fredda e scondita! Ogni cosa ha il suo tempo…
Le castagne sono una grande risorsa alimentare, perciò conviene non sottovalutarle mai, che possono sempre venir buone nei tempi duri. Si raccolgono in tutto l’arco alpino e appenninico e non si consumano soltanto fresche in stagione, ma si conservano pure secche e pronte all’uso fino alla stagione successiva. Per essiccarle occorrono diversi giorni sia quando si espongono al sole e all’aria distese sui balconi sia quando si affumicano su apposite griglie in piccoli ambienti chiusi, ma lontane dal fuoco o dalla brace. Si devono poi “battere” per eliminare la spessa buccia esterna e la sottilissima pellicola interna e quando vengono messe a nudo, tutta polpa, si chiamano “bianche”, ma in commercio se ne trovano pure con la pellicina ancora da togliere almeno in parte, se non tutta, e non è detto che ciò denoti un difetto di essiccazione e/o di battitura, perché può anche dipendere da alcune delle varietà di questo frutto.
Le castagne secche si usano tutto l’anno in numerose ricette, una delle quali è diffusa un po’ dappertutto ed è appunto a base di riso e di latte, da cui viene la seuppa per antonomasia in Valdaosta, la brodolese in Toscana che è detta brodolata intorno al monte Amiata, la vianda o viandà nel canavese, è chiamata mach nel varesotto e in Valtellina e anche machët nel biellese (o machtebbi quando è tiepida e densa al punto da far rimanere dritto il cucchiaio nel piatto). Questa era la pietanza più comune nelle colonie Walser a sud del Monte Rosa, soprattutto per il nutrimento dei bambini. Allora non si usava ancora il riso proveniente dalla pianura, ma il panìco o “riso delle montagne”, come veniva definito nel 1790 da Jacopo Antonio Albertazzi di Vogogna l’antico cereale primaverile che veniva chiamato baingu, cugino del più tardivo miglio o panicum miliaceum, che finiva a fare la parte del riso nella minestra con il latte (in dialetto benenciu, ma anche bénicio a Rima e d’baniccia ad Alagna) cui si aggiungevano le castagne oppure la zucca o le rape.
La pietanza (per 4 persone)
1 litro di latte fresco e intero
1 litro d’acqua
1 etto e mezzo di riso “originario”
2 etti di castagne “bianche” secche e senza pellicina
1 etto di burro di montagna o almeno fatto con latte intero (facoltativo)
sale secondo il gusto, oppure 2 cucchiai di zucchero
36 ore prima della preparazione mettete in una ciotola a bagno le castagne, facendo in modo che l’acqua dell’ammollo sia tre dita sopra il livello delle castagne. Se in questo periodo vedete che l’acqua diminuisce troppo, rabboccatela. Passato il tempo sciacquate bene le castagne e controllate che non ci siano residui di pellicina scuri e, se è il caso, toglieteli con una pinzetta aiutandovi con un ago da cucito.
Mettete in una pentola alta e antiaderente l’acqua, il latte e le castagne, tagliando a metà quelle intere; portate a bollore e cuocete le castagne per 15 minuti con la pentola coperta. Versate il riso e fate cuocere ancora per altri 15/20 minuti, sempre con il coperchio e, mi raccomando, sempre a fuoco basso, altrimenti il latte trabocca. Il tempo di cottura del riso di 15/20 minuti dipende dal fatto di amare un riso “al dente” piuttosto che stracotto!
Circa 5 minuti prima del termine della cottura aggiungete o un cucchiaino di sale oppure 2 cucchiai rasi di zucchero. Se vi volete male, potete mettere altro zucchero. Odiandovi, potrete aggiungere anche il burro sia nella versione dolce sia in quella salata…
Alternativa 1: zucca gialla mantovana al posto delle castagne
Sostituite le castagne con lo stesso quantitativo di zucca gialla mantovana, ma usando il burro e aggiungendo la salvia. Dopo aver liberato la polpa della zucca di questa varietà pregiata da semi, filamenti e scorza, tagliatela a tocchettini, a piccoli cubetti. Fate sciogliere il burro: non va soffritto, ma solo sciolto a fuoco lento. Aggiungete 3 foglie di salvia e i pezzetti di zucca, salate poco e coprite con un coperchio. Cuocete per una ventina di minuti, rimestando spesso con un forchettone di legno e schiacciate i pezzetti di zucca fino a farli diventare come un purè. Togliete le foglie di salvia. Aggiungete l’acqua e il latte e, quando bollono, anche il riso. Fate cuocere ancora per altri 15/20 minuti, sempre con il coperchio e, mi raccomando, sempre a fuoco basso, altrimenti il latte trabocca. Anche con quest’alternativa potete sostituire il sale con lo zucchero 5 minuti prima del termine della cottura.
Alternativa 2: rapa bianca al posto della zucca gialla mantovana
Stessi ingredienti dell’Alternativa 1, sostituendo la zucca gialla mantovana con 300 grammi di rapa bianca che, tra le rape, è la varietà più dolce. Anche le rape vanno sbucciate e tagliate a tocchettini, a piccoli cubetti. Portate a bollore l’acqua con il latte e un cucchiaino di sale. Quando bolle, aggiungere le rape e dopo 10 minuti anche il riso. Fate cuocere ancora per altri 15/20 minuti, sempre con il coperchio e, mi raccomando, sempre a fuoco basso, altrimenti il latte trabocca.
Il vino Dolcetto d’Alba “Monte Aribaldo” delle Tenute Cisa Asinari dei Marchesi di Gresy
L’istinto mi suggerisce di berci su un Erbaluce di Caluso fresco, giallo paglierino con brillanti riflessi verdolini che annunciano un bouquet di fiori bianchi su fondo cristallino e un finale lievemente ammandorlato; d’estate, però, cioè quando questa minestra di riso, latte e castagne si può gustare fredda o appena tiepida dopo quei temporali che rinfrescano di colpo le giornate afose. D’inverno, invece, quando può riscaldare il corpo nelle giornate di ghiaccio e di nebbia, è più indicato un rosso, magari proprio quello che scalda anche il cuore, che è un inguaribile romantico. Come sostengo da sempre, nella bottiglia c’è “anche” il vino, ma soprattutto il sogno, l’emozione, il ricordo e mi viene in mente quella stappata la prima volta in cui ho apprezzato questa minestra da adulto, quasi quarant’anni fa, in corso di Porta Romana a Milano a casa degli amici Aldo e Lea con i figli Tania e Giorgio, mai dimenticati anche se sparsi, oggi, in continenti e mondi diversi. Era un Dolcetto 1978 delle tenute Cisa Asinari dei marchesi di Grésy, allora da poco in commercio, che lasciò una bianca coroncina di cristalli di tartaro e zuccheri sul fondo, come Dio comanda per questo vino. Da allora non perdo occasione di stapparne una bottiglia, quando riesco a trovarlo.
Il Dolcetto sarebbe il terzo grande vitigno rosso delle Langhe dopo Nebbiolo e Barbera, ma è il primo che si può piantare là dove gli altri due fanno fatica a crescere e a dare quei grandi vini che conosciamo, per esempio sulle marne con esposizioni più fredde e sulle colline più alte. È il fratello asino, diciamolo pure, quello che si sacrifica per dare spazio e fasto agli altri. Eppure è il vino che ti viene offerto più volentieri già sulla porta di casa quando vai a far visita a un contadino, a un vignaiolo di quelle parti. Infatti, è il vitigno del cuore di questa gente, un po’ perché è il primo a maturare fra quelli rossi piemontesi e dà presto un’uva dolcissima, la prima da servire anche in tavola ai bambini nelle vacanze estive, un po’ per l’immediatezza sincera dei suoi profumi perché dona un vino più immediato e più piacevolmente colorato del Nebbiolo e senza la proverbiale acidità del potente Barbera, ma giustamente vinoso, armonico e subito pronto alla beva.
La prima testimonianza storica che nomina il Dolcetto è un documento del comune di Dogliani del 1593, ma la sua origine è certamente più antica e risale perlomeno al tardo medioevo nella zona di Ormea, sulle basse colline del Tanaro (da cui forse il nome in dialetto, dossét), se non prima ancora nelle valli torrentizie della Liguria di Ponente. I nostri vecchi lo preferivano più leggero e da bere molto giovane, ma oggi nelle versioni base, anche in bottiglione, normalmente è al meglio nel secondo o terzo anno dalla vendemmia e nelle versioni più importanti, in bottiglia, non disdegna anche 5, perfino 10 anni d’invecchiamento.
Vino da tutto pasto rosso rubino dai riflessi violacei, il suo punto di forza è il fruttato, con intensi profumi di ciliegie e amarene, di lamponi e ribes rosso, in una veste elegante e vellutata su un fondo piacevolmente erbaceo di salvia e mentuccia con leggere note balsamiche di china in un finale ammandorlato e, quando va un po’ più in là negli anni, perfino note speziate e tostate con un tocco di buon cacao. Tenore alcolico 13,5%. Parlo della versione odierna di quel vino che suggellò un’amicizia enogastronomica indimenticabile, cioè del Dolcetto d’Alba del Monte Aribaldo e in particolare dell’annata 2013, un po’ meno di 25.000 prodotte da 4,67 ettari con esposizione a Sud/SudOvest e all’altitudine media di 360-370 m s.l.m. su suoli di calcare e tufo in cima a un bel colle di Treiso tutt’intorno a Villa Giulia, un’incantevole palazzina da caccia in stile liberty con una vista mozzafiato a 360 gradi sul Piemonte fino alle Alpi.
Le Tenute Cisa Asinari dei marchesi di Grésy sono diventate una cantina moderna soltanto nel 1973 per volontà di Alberto di Grésy che volle valorizzare finalmente in proprio quelle nobili uve coltivate da due secoli nelle sue vigne, ma che fino ad allora venivano vendute a terzi. Si tratta di quattro aziende agricole. Due nelle Langhe: Martinenga, nel cuore del vigneto di Barbaresco, il vero e proprio asse portante dell’azienda fin dal 1797, dove si conferiscono e si vinificano tutte le uve delle proprietà, e Monte Aribaldo, che appartiene alla famiglia fin dal 1635, a un paio di chilometri di distanza in linea d’aria, ma già nel comune di Treiso. E altre due nel Monferrato: La Serra e Monte Colombo, nel comune di Cassine in provincia di Alessandria. Sono buoni tutti i vini che fanno dai vitigni autoctoni piemontesi, tra cui spicca l’eccellente Barbaresco Camp Gros della Martinenga, ma al cuore non si comanda: il Dolcetto per me avrà sempre la precedenza.
Tenute Cisa Asinari dei marchesi di Grésy
località Martinenga, strada della Stazione 21, 12050 Barbaresco (CN)
tel. 0173.635221, fax 0173.635187
sito www.marchesidigresy.com