Mauro Sebaste: per cento bricchi con le ali ai piedi
La verità è rivoluzionaria. Non conoscevo proprio questo produttore, nonostante che Roberto Giuliani ne abbia recensito ben 19 vini fin dall’annata 1999 (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa…), ma consentitemi una scusante. Vivo in Polonia dal 1996 e in Langa, in particolare a Gallo d’Alba, ci sono tornato soltanto una volta nel 2003, ma per tre giorni di lavoro intenso con la TV polacca per il serial televisivo ”Druga twarz” in cui filmavamo la veloce formazione di un sommelier dilettante per vincere un concorso fra sommelier professionisti (4 a 0 per noi, in finale!). Gallo d’Alba, quanti bei ricordi! È uno dei luoghi più belli del mondo, ma anche con le persone più genuine e più amorevoli del mondo, generosamente laboriose per tutta la vita e con un cuore d’oro. Ricordo con particolare affetto la mamma del prof. Luigi Cabutto con la sua Locanda del Centro, ormai demolita da 16 anni. Quante fettine di tartufo fresco ci metteva sui primi piatti senza nemmeno contarle e che bei vini potevamo bere senza poi doverci svenare! Ricordo il buon Mario, incontrato mentre a 77 anni saliva a zappare la vigna intorno al castello di Grinzane Cavour, un uomo che da giovane aveva lavorato in fornace, poi in varie cascine e che infine, grazie al Comune, nei suoi ultimi anni era stato finalmente curato e assistito come si doveva nella casa di riposo a Monforte d’Alba. Ricordo bene anche le favolose vigne della frazione collinare di Santa Rosalia, in particolare, allora considerate la culla del Langhe Freisa, un vino che ha sempre incontrato i miei gusti fin dal 1978, quando l’avevo assaggiato per la prima volta con la finanziera di creste e bargigli di gallo e pure con il Castelmagno, alla Trattoria della Posta di strada Mongreno a Sassi in Torino.
Sì, lo so, ne ho assaggiati tanti, e buoni, di Freisa tranquilli e ho scoperto che sta ritornando a essere apprezzato come vino d’eccellenza, ma allora nella versione ferma denotava invece una marcata durezza, poco apprezzata per la verità nonostante l’evidente potenziale, come emerso nell’indimenticabile grande convegno di Roatto nel 2003. Allora il prof. Gerbi (docente alla Facoltà di Agraria di Torino) suggeriva di raccogliere e fare subito fermentare soltanto circa 4/5 delle uve, lasciandone circa 1/5 ad appassire su graticci oppure a surmaturare un altro po’ sulla pianta per poi assemblarle al mosto circa una settimana dopo.
Il Freisa ha una forte personalità e può raggiungere il successo soltanto in sintonia con il suo carattere e per me non è stato per niente facile accettare allora una realtà come i Freisa fatti in versione tranquilla per diventare più raffinati e da ristorante, anche perché il vitigno possiede tannini da orticaria con note succose e amarognole e intensi profumi di fragole e more selvatiche. Ovvero: l’esuberanza, più che l’armonia, è la vera dote del Freisa e ha dalle innumerevoli sfaccettature, al punto che quest’uva tanto bonaria e generosa avrà ancora da sorprenderci. E, avendo visto proprio sul sito di questo produttore una foto del Freisa vivace 2013, ma non avendone trovato le note descrittive fra quelle di Roberto Giuliani, pensavo di poter soddisfare la mia curiosità contattando il produttore. ”Buongiorno Mario, purtroppo la Freisa abbiamo deciso di metterla da parte per qualche anno, purtroppo è un vino che non ha più mercato o comunque molto ridotto. Per me è un dispiacere perché la producevo soprattutto in memoria di mia mamma che aveva iniziato proprio con questo vino”. Per fortuna stavo seduto, altrimenti sarei caduto per terra. Bòja Fàuss! Un altro produttore costretto a cedere a un pugno di buyers che ”focalizza su nome e prezzo ma non c’è più quel lavoro certosino di ricerca dei vitigni, delle tipicità del territorio, dei piccoli produttori e delle loro storie e purtroppo questo è il mondo e il sistema con cui dobbiamo coesistere, però l’importante è continuare sempre su questa strada e attraverso i vini lavorare per creare cultura e passione”.
Quando si fanno queste scelte così tormentate si ha bisogno di comprensione, solidarietà e cuore, così mi sono informato meglio. Mauro Sebaste è figlio di Sylla Dogliani, chiamata ”la dama di Langa” perché era una delle prime donne del vino d’Italia già negli anni ’50. Alla sua prematura scomparsa nel 1985, Mauro era appena un ragazzo. Aveva rilevato la parte del fratello ed era entrato in società con un amico che aveva rilevato la parte delle sorelle. Il socio si era però ammalato in poco tempo e aveva venduto la sua metà alla Gancia di Canelli, bravi ma non piccoli produttori, diciamo industriali. Altra mentalità, altri scopi. La pensavano diversamente e, piuttosto che continuare su posizioni paritarie, la Gancia se n’era andata. Grazie a Donato Lanati, comunque, Mauro aveva potuto ricevere in quel momento il sostegno di una persona che però in seguito gli dimostrerà di avere altre mire, mancandogli perfino di parola. Chapeau bas dunque a quel ragazzo con la passione per il vino e le idee molto chiare che nel 1991 si era trovato a ricominciare da… sottozero e a lasciare l’azienda di famiglia sulle colline di Barolo, ma a testa alta e a schiena dritta, perdendo purtroppo i vigneti nella Bussìa, la casa, la cantina e il marchio Sylla Sebaste con il nome di sua mamma.
Con l’aiuto della moglie Maria Teresa e dei suoceri, ma proprio in quel brutto momento in cui i prezzi delle vigne di Barolo erano diventati proibitivi, ha ricominciato a produrre vini di qualità in proprio come Mauro Sebaste Enologo a Gallo Conforso d’Alba. Stavolta però poteva progettarli senza restare vincolato solo alle vigne di proprietà (che oggi sono circa la metà di quelle di cui dispone). Per fare il Barolo era riuscito a comprare soltanto una vigna a Serralunga d’Alba (Prapò), perciò aveva dovuto ricercare il meglio anche fra quei numerosi piccoli vignaioli che fanno uve dalle caratteristiche adatte per tipicità, tradizione, localizzazione ed esposizione.
Aveva quindi acquistato altre parcelle in zone dove i prezzi erano più accessibili come a Santa Rosalia, a Mango, a Vinchio, ma solo per fare altri vini tipici, perciò per fare il Barolo aveva dovuto affittarne alcune che, grazie alla stima, all’amicizia e alla collaborazione che ne sono poi seguite, sono rimaste ancora oggi. Ecco come ha messo le ali ai piedi. Mauro viaggia dunque da un vigneto all’altro con il pick-up e con trattorista e trattori suoi, offrendo la sua competenza e quella degli agronomi Domenico Franco da sempre e di Fabio Dino da quattro anni. I vigneti in cui si producono le uve per i vini della cantina Mauro Sebaste sono stati scelti nei migliori poderi di Langa e Roero: Alba, Barolo, Canale d’Alba, La Morra, Monforte d’Alba, Serralunga d’Alba, Verduno, Vezza d’Alba.
Mauro Sebaste adesso gestisce circa 22 ettari di vigne sparse tra Langa e Roero, segue le uve fin dalla coltivazione e, con l’aiuto dell’enologo Giovanni Bailo con cui si confronta sempre in degustazione, cura dalla maturazione fino all’imbottigliamento tutte le fasi della produzione di una media di circa 150.000 bottiglie di vino e 15.000 di grappa. Mauro Sebaste rappresenta la terza generazione dopo il nonno e la mamma, ma è coadiuvato dalle figlie Sylla e Angelica, la quarta. Formato all’Istituto Enologico Umberto I di Alba dopo 13 anni in collegio dai preti, gestisce personalmente i vigneti applicando la lotta integrata, nessun diserbo, controllando la qualità del terreno, prestando una particolare attenzione al diradamento tutto manuale anche in due o tre passaggi (all’inizio dell’estate, prima i grappoli lontani, poi le alette e poi le punte) delle uve in esubero rispetto alla capacità della singola pianta di condurre a una perfetta maturazione ogni grappolo e riducendo i trattamenti.
Ogni anno, dopo un rigoroso controllo della maturazione delle uve e delle condizioni climatiche, Mauro organizza le vendemmie rigorosamente manuali e la scrupolosa cernita delle uve su tavolo vibrante con nastro scorrevole. Segue la pressatura soffice e una linea di vinificazione tutta quanta a temperatura controllata mediante un sistema centrale computerizzato che garantisce uno sviluppo uniforme del vino intervenendo sul biometabolismo dei lieviti nelle vasche d’acciaio inox in saturazione d’azoto e programma rimontaggi e follature. Alla fine delle maturazioni diversificate per tipo di vino si utilizza una modernissima linea per l’imbottigliamento isobarico che ne preserva la qualità e garantisce un’igiene totale.
Tutto il processo produttivo si svolge nella cantina dell’azienda progettata in ogni sua parte con grande attenzione per la più innovativa tecnologia enologica. Mauro ha abbandonato i sistemi delle lunghissime macerazioni (anche di due mesi) che si applicavano in famiglia e ha sostituito sempre di più i sistemi chimici a favore di quelli fisici con l’uso delle tecnologie più moderne. Gli piacciono i vini potenti, ma devono essere eleganti e puliti, perché il suo stile è molto attento e scrupoloso nell’integrare la modernità e la precisione nel rispetto della tradizione. I suoi vini possono essere degustati nella sala accanto alla cantina, dove Mauro Sebaste e la moglie ricevono volentieri i visitatori, anche perché questa è una zona di turismo di passaggio (al 90% straniero) verso la Liguria e verso la montagna, a differenza delle zone limitrofe come l’Astigiano e il Monferrato.
Roero Arneis 2018
Le vigne sono situate nei comuni di Vezza d’Alba, Corneliano e Monteu Roero su suolo sabbioso e limoso. Le uve sono raccolte nella seconda metà di agosto. Dopo la separazione delle vinacce, il mosto viene trasferito in vasche d’acciaio inox termoregolate con sistema automatico e computerizzato di rimontaggi e follature, senz’aggiunta di nessun additivo chimico. Il vino rimane in vasca di acciaio per 2 o 3 mesi e imbottigliato all’inizio dell’anno successivo alla vendemmia. Di colore giallo paglierino tenue e luminoso con riflessi verdolini, si annuncia delicato, fresco, con profumi di zagare e ginestre. In bocca è rotondo, armonico, morbido, sapido con un succoso bouquet d’aromi di pesca gialla, susina mirabella, uva spina bianca, succo di pompelmo e un finale sottile di mandorla amara e scorza di cedro. Tenore alcolico del 13%. Servito leggermente fresco, esprime al meglio tutte le sue doti organolettiche. Uno dei migliori Arneis che abbia bevuto in mezzo secolo, un gioiellino da non perdere. Abbinamenti? È tanto buono da solo che non sarei proprio sicuro di poter suggerire degli altri abbinamenti oltre all’alcova, al nido d’amore, fra un bacio e una carezza. È di una delicatezza e di un fruttato tanto piacevoli che va trattato con i guanti bianchi, senza forzarlo sui sapori forti, per esempio con aceto, pepe e peperoncino rosso, grigliate e arrosti di pesce o di carne, cioccolato nero, ma per il resto penso che sia uno dei pochi vini bianchi che sa accompagnare le pietanze più delicate di un intero pasto, dall’aperitivo ai dolci secchi. Fa l’amore con i gamberetti in salsa rosa.
Barbera d’Asti 2017 “Valdevani” 2017
Le vigne si trovano nel comune di Vinchio, sottozone Boglietto e Valdevani su suoli sabbiosi con buona presenza di limo e venature di argilla. Le uve sono raccolte in settembre. Contatto con le bucce per 6-8 giorni in vasche di acciaio inox termoregolate con sistema automatico e computerizzato di rimontaggi e follature, senz’aggiunta di nessun additivo chimico. Fermentazione con rimontaggi giornalieri. Alla svinatura segue la fermentazione malolattica e un periodo di riposo per conservare la freschezza e la dolcezza del fruttato fino alla primavera successiva, quando viene imbottigliato e affinato almeno per 1 mese prima della vendita. Di colore rosso rubino intenso, attacca con la sua schiettezza spartana, intonsa dal legno. Aromi di fragoline di bosco, amarene e more di gelso con delicate note di ortica, foglie secche e sambuco nero. Vino pieno, ricco, rotondo (si può dire rubicondo?), ma vellutato, ben equilibrato tra morbidezza e potenza, infatti non scherza proprio con il tenore alcolico del 14,5%. Finale salmastro e amaricante. Non morde, ma è pimpante. Mai a stomaco vuoto! La sensazione di calore che infonde è veramente notevole. Vino da agnolotti al sugo d’arrosto, tagliata alla rucola, bistecche di filetto di manzo appena scottate al burro, bollito misto in salsa verde, stracotto di asina, lumache in umido, arrosto di vitello all’acciughina e m’intriga appunto anche con le acciughe sotto sale comprate intere, diliscate e pulite a dorso di coltello e con uno straccetto bianco umido. Servito a 18 °C, esprime al meglio tutte le sue doti organolettiche. Sopporta anche un grado o due in più, d’inverno, ma non ne consiglio in meno d’estate.
Dolcetto d’Alba “Contessa Rosalia” 2017
La vigna si trova nel comune di Alba, zona Santa Rosalia su suolo di tipo calcareo. Le uve sono raccolte in settembre. Vinificazione d 4-6 giorni in vasche di acciaio termoregolate con sistema automatico e computerizzato di rimontaggi e follature, per esaltare il fruttato tipico di questo vitigno. Alla svinatura segue la fermentazione malolattica. Il vino rimane poi 4-6 mesi in vasche di acciaio inox in cui può venire eventualmente micro-ossigenato. Imbottigliato nella primavera successiva alla vendemmia e affinato in vetro almeno 1 mese prima della vendita. Chissà perché bevendolo mi è tornato in mente lo scomparso Mario che preferiva invece i bottiglioni da 2 litri di quello ”leggero” con 3 gradi in meno di questo.
Il Dolcetto d’Alba è vinificato dalle uve di dolcetto, un vitigno che risale perlomeno al tardo medioevo nella zona di Ormea, sulle basse colline del Tanaro (da cui forse il nome in dialetto, dossét), se non prima ancora nelle valli torrentizie della Liguria di Ponente. I nostri vecchi lo preferivano appunto più leggero e da bere molto giovane, anche se penso che quello di oggi dia il meglio di sé due o tre anni dopo la vendemmia e posso affermare che nelle versioni più importanti non disdegna 5 e perfino 10 anni d’invecchiamento, come promette questo. Rispetto ai vitigni nebbiolo e barbera, il dolcetto è il fratello ”asino”, cioè quello che si sacrifica per dare spazio e fasto agli altri due, infatti di solito viene piantato là dove nebbiolo e barbera fanno fatica a crescere e a dare quei grandi vini che conosciamo e quindi, per esempio, sulle marne con esposizioni più fredde o sulle colline più alte. Eppure è il vino che viene offerto più volentieri già sulla porta di casa quando si fa visita a un contadino, a un vignaiolo di quelle parti. Infatti, è il vitigno del cuore di questa gente, un po’ anche perché è il primo a maturare fra quelli rossi e dà più presto degli altri un’uva dolcissima, la prima che mangiano i bambini nelle vacanze estive.
Questo è un vino da tutto pasto, giustamente vinoso, armonico e subito pronto alla beva, di colore rosso rubino intenso con riflessi viola, tipico, inconfondibile. Il suo punto di forza non è nell’attacco, infatti si dimostra restio a sprigionare gli aromi fruttati maturi di ciliegie, amarene e lamponi, è molto asciutto e le copre un po’ con note tostate e un tocco di cacao che preludono a un finale lievemente ammandorlato. Tenore alcolico del 13,5%.
Barbera d’Alba Superiore “Centobricchi” 2016
Le vigne si trovano nei comuni di Alba e Diano d’Alba (Sorì dei Bartu) su suoli di tipo calcareo. Le uve sono raccolte tra la metà e la fine di settembre. Vinificato per 8-10 giorni in vasche di acciaio inox termoregolate con sistema automatico e computerizzato di rimontaggi e follature, matura per 12-14 mesi in tonneaux di primo passaggio da 400 litri di rovere francese, poi viene imbottigliato e affinato in vetro almeno 3 mesi prima della vendita. Va servito a 18 °C per apprezzarlo meglio. Mentre si ossigena nel calice diffonde calore al palato e spara tanti di quei profumi di fiori e di frutti rossi che sarebbe perfino troppo lungo elencarli, sa correre proprio come i Bersaglieri. Colore rosso rubino scuro con riflessi tra il porpora e l’amaranto. All’attacco si avverte un piacevole aroma di goudron che introduce un bouquet di violetta e di amarena. Al palato sprigiona una meravigliosa acidità che aggiunge aromi di piccoli frutti di bosco, ciliegie, marasche. Sapido e molto ben equilibrato tra potenza, freschezza e tenore alcolico molto elevato (siamo al 15,5%), ma talmente ben fuso che non sovrasta, anzi esalta armoniosamente, gli aromi come sa fare solo un grande Barbera d’Alba. Il finale è leggermente amarognolo, sempre più vegetale (mallo di noce, ortica) e persistente.
È un vino di cui si dovrebbero comprare più bottiglie per gustarsele anche dopo 10, 15, 20 anni. Ha un potenziale di miglioramento notevole. Mi ha ricordato il Barbera d’Alba 1926 che ho gustato con il mio papà dopo mezzo secolo, quello del 1964 che ho gustato dopo un quarto di secolo con il pittore Angelo Bersani (staffetta partigiana di Vincenzo ”Cino” Moscatelli, medaglia d’argento al valor militare, commissario politico delle divisioni Garibaldi di Valsesia, Verbano, Cusio e Ossola), ma anche quello del 1990 che ha fatto andare in ”trance” il campione e istruttore dei sommelier polacchi Michał Jancik a Monforte d’Alba, cioè dei Barbera che alle volte mi fanno dubitare che il re dei vini sia davvero il Nebbiolo. In tavola è un vino da tutto pasto, l’abbinamento ideale ce l’ha con una comoda sedia, magari in pelle imbottita, perché non è da gustare in piedi, ma da centellinare. Ideale soprattutto con pietanze molto saporite e portate di carni bianche, rosse e scure arrostite e grigliate, ma accompagna bene tutto ciò che non è pesce e va benissimo anche in poltrona, dopo il pasto.
Nebbiolo d’Alba “Parigi” 2017
Le vigne si trovano nei comuni di Alba e Diano d’Alba su suoli di tipo calcareo. Le uve sono raccolte tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. Vinificato per 8-10 giorni in vasche di acciaio inox termoregolate con sistema automatico e computerizzato di rimontaggi e follature, fa la malolattica e la maturazione per 12-14 mesi in tonneaux da 400 litri (60% di rovere americano e 40% di rovere francese), poi viene imbottigliato e affinato in vetro almeno 3 mesi prima della vendita. Per qualcuno può essere una sorpresa questo nebbiolo fatto con uve pregiate di due cloni (michet in prevalenza e lampia) e vinificato appena un po’ in legno, come se fosse un Barolo spillato prima e acquistato a un prezzo più conveniente. È vero che Barolo e Barbaresco avevano ottenuto la DOC nel 1966 e poi sono diventati anche DOCG, mentre il Nebbiolo d’Alba ha dovuto aspettare altri 4 anni per ritagliarsi nel 1970 la sua DOC in 31 comuni e forse è proprio questo ritardo che gli aveva procurato la nomea di ”denominazione di ricaduta”. Ma non è giusto, è proprio un altro vino. È vero che i vigneti di nebbiolo in cui si produce il Nebbiolo d’Alba DOC e che si trovano negli 11 comuni stabiliti per il Barolo DOCG o nei 3 comuni intorno a quello di Barbaresco possono destinare le uve anche all’uno o all’altro di questi due vini secondo le specifiche precisate dai singoli disciplinari, ma la scelta del produttore può dipendere da ragioni diverse, anche soltanto da quelle economiche o commerciali. Inoltre, tutti i vigneti di nebbiolo in cui si produce il Nebbiolo d’Alba DOC possono destinare le loro uve perfino per vinificare il Langhe Nebbiolo DOC nei 95 comuni stabiliti, da sole oppure in concorso almeno all’85% con altre uve autorizzate di colore analogo.
Il colore è rosso porpora di trasparenza cristallina, luminoso. All’attacco è delicato, fresco, di rose rosse e iris (giaggiolo) rosso con una sfumatura di scorza d’arancia tarocco e spezie dolci. È etereo, asciutto, fresco e in bocca aggiunge agli aromi quelli di corniolo e di susine del prugnolo selvatico anche sotto spirito e nel finale anche delicate sfumature mentolate su fondo amarognolo. O sono diventato etilista io e devo farmi qualche analisi oppure l’alcool (sebbene al 15%) non sgomita assolutamente perché si è armonizzato a meraviglia. Anche i tannini sono di una rara levigatezza. Quando s’incontrano nebbioli di cotanta scorrevolezza, nonostante la solida struttura e l’elevata acidità, c’è da goderli in buona compagnia, specialmente con taglieri di formaggi e salumi, antipasti piemontesi rossi dell’orto, pollame in gelatina, arrosti e scaloppine di vitello. In calice ampio sopporta come pochi un’ampia escursione di temperature dai 16 ai 21 °C.
Barolo “Trèsüri” 2015
Trèsüri è uno dei quattro Barolo proposti da Mauro Sebaste (gli altri sono Prapò, Cerretta e Riserva Ghé). Il nome in dialetto significa ”tre sorì” e questo è appunto un assemblaggio di nebbioli provenienti da tre vigne su suoli di tipo calcareo ma differenti per caratteristiche pedoclimatiche e che l’esperienza di molte vendemmie unisce per equilibrare meglio ogni anno le doti organolettiche di questo Barolo complesso e di eccellente qualità. In Langa il concetto di cru, di vino prodotto da una singola vigna, ha sempre avuto un valore altissimo ma, a causa del riscaldamento globale del pianeta che in certi cru storici ha iniziato ad arrostire in certe annate le uve sulla pianta, si è sviluppata anche la tendenza a mischiare i grappoli o i vini provenienti dalle vigne più fresche con quelli delle vigne più calde per equilibrarli meglio e produrre vini di maggiore completezza e complessità. A cominciare da Beppe “citrico” Rinaldi e da Bartolo Mascarello, che avevano intuito come solo in alcuni casi le peculiari caratteristiche di certi cru, non sempre gli stessi, producono ogni anno uve di doti organolettiche così elevate da guadagnarsi la vinificazione separata e l’imbottigliamento in proprio. Mauro Sebaste, che propone anche dei cru quando lo meritano, fa anche il Trèsüri che proviene appunto da tre vigneti, da tre raccolte diverse di uve nebbiolo di tre cloni (uno di michet in prevalenza e due di lampia) vendemmiate in ottobre. Vinificato per 12-16 giorni in vasche di acciaio termoregolate con sistema automatico e computerizzato di rimontaggi e follatura, dopo la malolattica il vino matura in botti di rovere francese da 1.600 litri e in alcuni carati da 400 litri per 36 mesi, poi viene imbottigliato e affinato in vetro almeno 3 mesi prima della vendita. Nel caso dell’annata 2015 questo Barolo ha conservato più di altri, partiti per una tangente alcolica piuttosto marcata, la propria disinvoltura di beva e una prorompente freschezza.
Colore rosso rubino intenso con riflessi granata. All’attacco è armonioso, fine e carezzevole come una sottoveste di seta, con aromi di violette, rose e fiori di ciliegio. In bocca è ampio, pieno, equilibrato, di rara pulizia organolettica. Molto piacevole per i tannini morbidissimi che accompagnano delicate note di confetti da sposa e di erbe aromatiche ad aprire la porta a un fruttato che fa capolino con un’insolita calma, in punta di piedi, quasi a non disturbare, con sfumature di ciliegie, mirtilli rossi, susine mirabolano. Il finale è delicato, lungo e persistente. Tenore alcolico del 14,5%.
Abbinamento classico con il brasato di manzo (personalmente lo preferisco di ”cappello del prete”), con i piatti di carni bovine e di cacciagione particolarmente elaborati, gli arrosti di capretto e di agnello, le pietanze con tartufi, i formaggi di lunga stagionatura e si fa gradire anche con la pasticceria secca come le paste (frollini) di meliga, ma anche con gli albesi al barolo, le busìe e la zuppa tartara.
Mario Crosta
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