La pasta alla genovese (e la sindrome di Proust) con Irpinia Coda di Volpe
Accogliamo con piacere l’ingresso in Lavinium di Laura Nuzzo, che si presenta così:
“Non ho certificazioni, non sono sommelier, né degustatrice ufficiale del gran Regno. Mi occupo di comunicazione e di digital design dal 2002 in una grande azienda di IT, ma il vino e il cibo sono sempre stati la mia passione; adoro cucinare, sperimentare, assaggiare. Cucino da sempre, è la mia àncora di salvezza: subito dopo un evento impegnativo che mi ha richiesto concentrazione e stress, mi chiudo in cucina per ore per scaricare la tensione, produrre qualcosa di buono e celebrare quanto vissuto. Sono convinta che preparare con dedizione un buon piatto è l’atto d’amore più grande che si possa compiere. E quando posso lo faccio con tutto il cuore, sperimentando e studiando sempre nuovi abbinamenti o rielaborando le ricette della cucina classica. La cucina etnica e le contaminazioni mi incuriosiscono, ma sono il valore della materia prima e il ricordo olfattivo di quello che abbiamo mangiato da piccoli che più influiscono sulla riuscita di un buon piatto. Infatti, l’olfatto per me è sempre al servizio del gusto. Amo l’arte e il design in tutte le sue forme, viaggiare, mangiare e bere in compagnia“.
Se le chiediamo “bianco, rosso o bollicine”, è davanti a un bicchiere di vino rosso che si emoziona di più.
Una premessa: non è una ricetta ligure ma campana e Proust lo scomodiamo solo per citare la sensazione che suscitano le madeleine di proustiana memoria. In realtà, la scelta di questo titolo è solo un pretesto per presentarmi, dichiarare le mie radici napoletane e la mia ossessione per l’olfatto al servizio del gusto. L’odore di quello che mangio rappresenta una parte importantissima della mia personale esperienza gustativa. Non sto dicendo nulla di nuovo, lo so, il film ”Ratatouille”, per esempio, ha già espresso tutto sul tema. Ma per me, chiudere gli occhi e sentire il profumo della pasta alla genovese di mia mamma e ancora prima quello della pasta di mia nonna, è sempre motivo di commozione. In generale, il profumo di un piatto mi guida nell’esperienza gustativa quasi più della vista e la memoria olfattiva, si sa, ha un ruolo importante.
La memoria olfattiva è la sfera del settore cerebrale che è in grado di mettere in connessione odori e ricordi nel giro di un respiro. L’olfatto è tra i sensi più immediati: una volta penetrate nel naso attraverso le narici, le molecole di profumo entrano in contatto con lo strato dell’epitelio olfattivo che è formato da una serie di neuroni che captano la fragranza e la riconoscono. L’informazione arriva nel bulbo olfattivo e viene ”processata” per essere elaborata e diventare un ricordo, pronto a manifestarsi appena si sente lo stesso odore. E il profumo della pasta alla genovese è un profumo importante, che sa di cipolla dolce, di cottura lenta, di carne morbida e nel mio caso, anche un po’ di spezie.
Già il nome del piatto apre una questione: la ”pasta alla genovese”, come anticipato, è in realtà un piatto della cucina tradizionale napoletana che oggi è sempre più presente nei menù accanto al più famoso ragù. E’ il piatto della domenica di una volta, quando la carne si mangiava tutti insieme e solo di domenica.
Ci sono tante versioni sul perché è stato dato questo nome a questa ricetta. Una prima versione attribuisce l’origine ai cuochi di origine genovese che cucinavano questo piatto nella zona del porto di Napoli, in epoca aragonese. Una seconda ipotesi vede la creazione della genovese da parte di un cuoco napoletano, soprannominato ‘o genoves’ perché la sua locanda si trovava nel ”vicolo dei genovesi” sempre nella zona del porto. Una terza ipotesi attribuisce questo sugo alla presenza a Napoli nello stesso periodo, di mercenari svizzeri, in particolare del cantone di Ginevra (Genéve quindi e non Genova), la cui cucina faceva largo uso di cipolle.
In realtà, il riferimento alla ricetta è già presente nel trecentesco manoscritto del Liber de coquina (dal latino: Libro di cucina), redatto presso la corte Angioina di Napoli, uno tra i più antichi ricettari di cucina dell’occidente cristiano, giunti fino a noi. Tra le ricette di pasta presenti, ce n’è una che in latino suona come tria ianuenses, che diventa in italiano ”tria genovese”: uno spezzatino di carne, cipolle, ceci e pasta secca. Del perché si riferisca a Genova però non c’è nota.
Una cosa è certa: dalla prima metà dell’Ottocento e nel corso di tutto il Novecento, la genovese, che è un ragù ”bianco” e il ragù napoletano ”rosso”, hanno continuato a evolvere: da una parte il ragù rosso che prevede l’utilizzo del pomodoro e di alcuni tagli di carne di maiale e dall’altra la genovese che ha visto sempre di più la cipolla come protagonista principale. Anche se oggi sono due preparazioni distinte, queste due specialità hanno origine napoletana e questo nessuno lo può negare.
La pasta alla genovese ha mille varianti che prevedono introduzione di erbe, spezie e tagli diversi di carne. Ogni famiglia napoletana ha la sua ricetta, che tramanda di generazione in generazione.
Qui di seguito, vi indico la mia versione elaborata partendo da quella che ho ereditato dalla mia mamma napoletana DOC e integrata con il frutto delle mie prove in cucina, ispirate anche dalle interpretazioni di cuochi e chef campani.
Tempo di preparazione e cottura:
3 ore e mezza
Ingredienti per 5 persone:
vegetali
- 3 kg di cipolle ramate di Montoro IGP
- 100 g di carote
- 100 g di sedano
- 1 foglia di alloro
- 250 g di pomodorini del Piennolo del Vesuvio DOP
tagli di carne
- 250 g di muscolo di manzo
- 250 g di spalla di manzo (per l’involtino, ossia la braciola)
- 250 g di muscolo di maiale
- 200 g di costine di maiale
altri ingredienti
- 400 g di pasta trafila Ziti di Gragnano
- vino bianco secco q.b.
- olio extravergine di oliva q.b.
- mix di pecorino e parmigiano reggiano grattugiati a piacere.
- pinoli q.b.
- uva passa q.b.
- pepe nero in grani da grattare al momento
- sale fino q.b.
- sale grosso q.b.
- un paio di chiodi di garofano
- brodo vegetale o di carne q.b.
Procedimento
Pulire e si mettere a mollo in acqua fredda i tre kg di cipolle e tagliarle a fette sottili con la mandolina o con l’affettatrice. Preparare l’involtino (che per i napoletani è la ”braciola”) con la spalla di manzo, l’uva passa, i pinoli interi, il sale fino, il pepe nero e il pecorino.
Una volta preparato il fondo con le carote e il sedano tritati, aggiungere l’involtino e il resto della carne tagliata a tocchi e rosolare tutto in pentola. Aggiungere, a questo punto le cipolle a fettine e la foglia di alloro, bagnare il con il vino bianco secco e cuocere a fiamma dolcissima.
Dopo un’ora, le cipolle avranno rilasciato l’acqua di cottura, quindi si può aggiungere il pomodoro (e, se piace, anche del basilico). Lasciare cuocere per altre 2 ore, aggiungendo eventualmente del brodo (o dell’acqua calda), se occorre per non fare asciugare troppo durante la cottura.
Dal momento che si tratta di un ragù, la carne deve risultare tenera tanto da sfilacciarsi facilmente e le cipolle devono essere diventate un condimento denso e cremoso. Solo alla fine correggere di sale e aggiungere pepe, se piace. Quando il ragù è pronto, cuocere la pasta (gli ziti spezzati a mano in 3 parti, cuocendo anche i frammenti di pasta che si producono mentre si spezzano) al dente in abbondante acqua e sale grosso per il tempo precisato sulla confezione.
Poi, dopo averla scolata, mantecarla in zuppiera con 2 o 3 mestoli del ragù e infine aggiungere il resto del ragù sopra la pasta in ogni piatto. Infine, servirla in tavola con il mix di pecorino e parmigiano da spolverare a piacere.
Laura Nuzzo
Il vino consigliato: Irpinia Coda di Volpe “Torama” 2019 Vadiaperti Traerte
Quando si ha voglia di un primo piatto che sia allo stesso tempo gustoso e salutare, solo una pasta al ragù può soddisfarne il desiderio. Bianco preferisce bianco, quand’è corposo e adatto anche ad alcune carni. Perciò, per festeggiare la prima discesa in campo di una cuoca per passione che ha un altro lavoro che la impegna moltissimo con un team di persone da coordinare (ma trova anche un po’ di tempo per suggerirci un po’ di qualità della vita), ho cercato e trovato un vino bianco molto adatto all’abbinamento: il Coda di Volpe. Si tratta di un vitigno molto antico che viene vinificato da un’uva autoctona e che deve il suo nome alla parte bassa, lunga e tozza del suo grappolo, somigliante appunto alla coda della volpe. È stato descritto, infatti, in epoca romana nell’Historia Naturalis di Plinio il Vecchio, ma era conosciuto esclusivamente come vino da taglio per spegnere la forte acidità che i terreni vulcanici forniscono ai vini bianchi.
Ed è solo a partire dal 1985 che, grazie a Domenico Ocone e Luigi Pastore, ha iniziato a essere vinificato in purezza dopo i loro esperimenti molto validi con vendemmie anticipate, pressature soffici e rese limite. Sulle montagne dell’Irpinia, una terra aspra e generosa, il vitigno coda di volpe trova il suo luogo d’elezione e proprio nel cuore di questo territorio si trova la cantina Vadiaperti. Questa bella realtà vitivinicola nata negli anni ’80 del secolo scorso è apparsa sul mercato con le sue prime bottiglie di Fiano di Avellino del 1984 che hanno reso rinomate le alture di Montefredane dove coltiva le uve tipiche irpine tra i 400 ed i 700 metri sopra il livello del mare e su terreni caratterizzati da una certa pendenza a volte superiore al 15% (soglia definibile come viticoltura estrema). La cantina è gestita da Raffaele Troisi che, dopo aver preso le redini del padre Antonio nel 2011, porta avanti l’opera di valorizzazione dei vitigni autoctoni. Tra questi, appunto, quel coda di volpe che dopo decenni sta iniziando a ottenere il giusto riconoscimento. Questa cantina è stata la prima a fornire una sua espressione in purezza nel 1993 (quando tutti la prevedevano soltanto come complementare in minime dosi nel Greco di Tufo DOCG). Raffaele e suo padre Antonio erano andati alla ricerca di particelle di vigneti e perfino di singoli filari di coda di volpe. Quindi hanno iniziato a stringere rapporti di collaborazione con alcuni viticoltori locali che si occupavano di produrre queste uve per il progetto Traerte, volto a valorizzare i vini Irpini e condotto da Raffaele insieme con Giuseppe, Irene e Claudio, che fin da subito hanno condiviso la medesima passione.
I vigneti della cantina Vadiaperti Traerte si estendono per circa 10 ettari vitati su suoli di origine vulcanica con il macroclima tipico dell’Appennino campano e tutti i vini che produce si caratterizzano per una coerenza di stile che non si accoda mai alle mode e continuano a caratterizzarsi per freschezza, sapidità e carattere originale, di grande spessore e personalità.
L’Irpinia Coda di Volpe ”Torama” 2019 deriva da uve coda di volpe in purezza, al 100%, coltivate in frazione Vertecchia nell’agro del comune di Pietradefusi verso Torre le Nocelle in provincia di Avellino a un’altitudine sui 450 m s.l.m. su suoli argillosi e sabbiosi con quarzi e calcari ed arenarie. Le viti sono state piantate a una densità da 3.800 a 5.000 ceppi per ettaro con esposizione a sud, hanno un’età che varia dai 70 agli 80 anni e sono allevate a spalliera e a pergola avellinese con una resa media sui 75 quintali per ettaro. Le vendemmie sono state effettuate a fine settembre e inizio ottobre con raccolta e selezione a mano. Il mosto è stato pressato sofficemente ed è fermentato in acciaio inossidabile, quindi il vino è stato affinato in acciaio e in vetro da 6 a 24 mesi prima della commercializzazione con un tenore alcolico del 13%.
Nel calice si presenta di colore paglierino con riflessi dorati e all’attacco sprigiona profumi di timo, camomilla e agrumi che aprono un bouquet di aromi di pesca gialla, mela cotogna e ananas tra sfumature di mentuccia. In bocca è fresco e particolarmente sapido con un ricordo di erba appena falciata che emerge su fondo delicatamente tannico. Un bel vino armonico e vellutato, ma di buona vena acida e abbastanza longevo che consiglierei di servire tra 10 e 12 °C tranquillamente ancora per qualche anno.
Rolando Marcodini
Vadiaperti Traerte – Vini dell’Irpinia
Contrada Vadiaperti, 83030 Montefredane (AV)
coord. GPS: lat. 40.973351 N, long. 14.828420 E
Sede legale: Via Michele Napoli 1, 83029 Solofra (AV)
Tel 0825.607013
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e-mail info@traerte.it