I vini “animali” di Gaspare Buscemi
Lasciandosi alle spalle San Giovanni al Natisone, situato sul fiume omonimo, ai limiti orientali della pianura friulana, ai piedi delle prime alture del Collio e seguendo ad est la SR56, verso Capriva del Friuli, appena superato un altro fiume, il Judrio, a Villanova del Judrio, si arriva a Cormons, provincia di Gorizia ma a meno di tre chilometri dal confine con la Slovenia.
La strada che porta verso la linea di frontiera italo-slovena attraversa le terre e le vigne che nel giro di poco più di cento anni sono passate due volte sotto la dominazione austriaca e due volte sono state riconquistate dall’Italia e i cartelli che contrassegnano i vigneti hanno nomi che manifestano l’avvicendarsi delle due giurisdizioni: Polencic (Isidoro), Toros (Franco), Keber (Renato, Edi), Sturm (Denis, Oscar…), Branco (Igor), Kurtin (Eugenio).
L’ultimo fazzoletto di terra italiana prima del confine è località Zegla, (Zegla in friulano, Ceglo in sloveno), frazione di Cormons, con circa una ventina di abitanti, steso come un tappeto verde, pianeggiante, parzialmente ondulato da uno spettacolo di vigne che prendono luce e aria dal mare Adriatico, distante meno di 20 chilometri in linea d’aria.
Qui, dal 1976, conduce la sua azienda Gaspare Buscemi.
Classe ’39, centinaia di vinificazioni alle spalle, Gaspare Buscemi è una delle memorie storiche viventi della vitienologia nazionale.
Come Lino Maga, altro grande vecchio del vino italiano, Gaspare è un concentrato di sapienza, spontaneità, intelligenza pratica e di un’esperienza acquisita sul campo, anzi sui campi delle più svariate zone vitivinicole, non solo italiane.
Un uomo coraggioso, romantico, genuino, di una purezza che reca il segno di una fedeltà ad un ideale, quasi un sogno, perseguito per un’intera vita: umanizzare l’enologia.
Per lui, il vignaiolo va preso per mano e accompagnato in un cammino di crescita e di consapevolezza delle proprie valenze, così come la vite, che è una pianta eclettica, versatile, capace di farsi carico di eventuali errori del vignaiolo distratto, o dell’inclemenza del tempo e che, se la sai ascoltare, ti suggerisce il modo di salvaguardarla.
Come un Don Chisciotte enoico ha combattuto contro i mulini a vento del sistema vitienologico che, con le loro pale dissennate, hanno dilaniato e dilaniano la cultura del vino fatta di genuinità, dignità, fierezza, orgoglio, bellezza, frantumandola in un cumulo di bruttezze.
È uno di quelli che non mollano mai perché continua a lottare ancora oggi, superata la soglia degli ottant’anni, con la stessa passione nata sui banchi della Scuola Enologica di Conegliano quando, di anni, ne aveva sedici, tirando dritto per non darla vinta a un sistema che non lo rappresenta, certo della giustezza del proprio credo.
Pur se la vita non gli ha risparmiato pesanti batoste, sul suo viso mite e buono, rimane acceso sempre un sorriso che ricaccia la mestizia e un velo di amarezza e disillusione.
Dietro la pacatezza dei modi e la quietezza della voce, si cela lo slancio, l’impeto ma anche il tormento del ricercatore, dell’educatore-apprendista che lo ha portato in giro per l’Italia e l’Europa con un bagaglio di sensibilità ed entusiasmo sulle spalle e, nelle mani, un caleidoscopio che riflette solo le sfaccettature buone e sane del vino.
La sua missione incomincia nel 1969, con la Viticoltori del Collio di San Floriano del Collio, un progetto, condiviso con il Conte Michele Formentini che dà a molti dei viticoltori del Collio la possibilità di proporsi, coi propri vini, sui nuovi mercati.
In quegli anni Gaspare ha solo trent’anni ma ha già visto tutto quel che c’era da vedere di bello ma, soprattutto, di brutto, nel mondo del vino.
Dopo le esperienze alla Vinicola del Piave di Visnà di Vazzola, alla Cantina Ermolao di Dolo, all’Azienda Giovanni Martellozzo di Camposampiero e da Marco Felluga di Gradisca d’Isonzo, accetta l’incarico di direttore del Consorzio Tutela Vini del Collio e dell’Isonzo e, in quella veste, viene a trovarsi ben presto di fronte a delle barriere quasi impossibili da superare per un uomo che rifiuta i compromessi.
Ma lui è di quelli che vede i limiti solo come punti di partenza per nuove sfide da affrontare, giorno dopo giorno, consapevole che il destino te lo devi costruire così come vuole la tua ragione. E la tua coscienza.
Nel suo cammino di crescita applica quotidianamente uno dei principi fondamentali appreso negli anni giovanili, tra le fila degli scout: il servizio a favore degli altri.
Di qui lo slancio che lo vedrà abbandonare il Consorzio per farsi paladino delle Condotte, ovvero un Servizio di Assistenza Tecnica Vitivinicola rivolto a piccoli produttori di vino per migliorarne le condizioni di lavoro.
L’idea, nata dalla mente di Luigi Veronelli, trova in Gaspare la sua più completa attuazione. A bordo del suo pick-up Peugeot 206, corre le più svariate zone vitivinicole venendo in aiuto a coloro che sono la vera anima enoica: vignaioli, contadini, agricoltori, persone con storie piene di coraggio e volontà, tutti accomunati dalla passione di fare il vino e desiderosi di farlo bene, nel migliore dei modi, per accendere le luci sul loro lavoro, la loro terra, la loro faccia.
Di queste luci, Gaspare ha contribuito ad accenderne a centinaia, alleviando la fatica che da sempre accompagna la vita in vigna e quelle terre, in cui è arrivato coi suoi insegnamenti, pur continuando a chiedere il sacrificio di un lavoro durissimo, hanno cominciato a dare delle certezze.
Cesare Pillon, proprio per la sua lungimiranza nel vedere le potenzialità del progetto delle Condotte, lo definì l’insolito profeta del vino, capace di tradurre in pratica quell’idea concretizzandola agli inizi degli anni ’80, a Carema: ”Buscemi se ne assunse l’incarico, portandovi l’esperienza già maturata nel Consorzio friulano. Il balzo di qualità compiuto dal vino della Cantina Sociale Produttori e la creazione di un grande rosso, il Carema di Carema, hanno segnato la traccia del passaggio di Buscemi in quel paesino del Piemonte. […] e i rapporti stretti allora con alcuni produttori hanno consentito a Buscemi di realizzare alcuni vini memorabili come il Colombaio riserva di Massimo Pachiè, un Erbaluce di straordinario rilievo, e il Solativo di Luigi Ferrando” (Cesare Pillon, Chi siamo, su l’Etichetta del marzo 1991).
Ma Gaspare non è solo un poeta per poeti: un poeta del vino che insegna ai poeti del vino a declamare poemi enoici, è anche un innovatore.
La ricerca tecnica, sviluppata nei molti anni di stretto contatto con il viticoltore, gli ha permesso di realizzare attrezzature enologiche e metodologie produttive, funzionali ai propri interlocutori; attrezzature e metodologie volte alla produzione di vini di massima naturalità e qualità, capaci di una lunga e vantaggiosa evoluzione nel tempo.
Ma soprattutto è il maestro della vinificazione, del controllo ossidativo e dell’incanto evolutivo dei Vini senza Tempo(“Gaspare Buscemi e i Vini senza Tempo” di Maria Cristina Pugnetti, in Le degustazioni, nel suo blog, Vini dell’Anima).
La sua sfida più grande è proprio quella di misurarsi col tempo perché tanti sono i rischi ma, a volte, enormi le gratificazioni.
Il concetto di tempo, nelle sue bottiglie, si esalta, si eleva, si fortifica, manifestandosi in note ossidative prive di contaminazioni che si fondono armonicamente per dare complessità ed eleganza al vino: una bellezza folgorante seppur ambigua perché legata a un compromesso estremo quanto arcano come quello dell’inganno dell’ossigeno.
Il vino è un elemento vivente che cambia e si trasforma in continuazione nel tempo.
C’è il tempo fuori della bottiglia e quello dentro: la conservazione e l’evoluzione, ovvero due aspetti di un’unica accezione che si contrappongono per mettere alla prova il vino e saggiarne l’energia, il calore, la forza, la vitalità.
Gaspare ha affrontato questa sfida del tempo, vincendola, con le sue creature più prodigiose, che lui chiama Vini d’Artigianato per essere stati prodotti esprimendo la terra nella maniera più naturale possibile: senza trattamenti chimici, senza escamotage tecnologici, senza il ricorso a sostanze estranee al patrimonio qualitativo delle uve e con un uso limitato, o addirittura azzerato, di anidride solforosa; insomma vini le cui caratteristiche non sono replicabili attraverso gli artifici industriali.
Sono vini fatti senza fretta e, proprio come la natura che non ama la fretta, si svelano lentamente.
La sintesi del pensiero di Gaspare è: “Quando il vino è cultura, il tempo è la misura della qualità”.
Ancor più che vini naturali, sono vini animali, vini con un’anima dentro, fatta di territorio-ambiente, etica alimentare ma soprattutto di cultura: la cultura del tempo.
Gaspare è il vignaiolo che oltre ad accompagnare la vite e i suoi frutti verso l’esito più istintivo e naturale possibile senza intervenire né manipolare, col suo ingegno instaura una relazione di gratitudine con ciò che ottiene per far riaffiorare la memoria energetica, l’anima enoica, appunto.
Un miracolo che avviene garantendo la massima longevità di questi vini che, sgravati da tutte le componenti soggette a degradazione, si mantengono intatti e inalterati per anni.
Una bottiglia di vino ha una sua vita in costante evoluzione fino alla completa perfezione, al culmine, all’apogeo da cui comincia la sua inesorabile decadenza: Gaspare spinge questo apice sempre più in là.
Nella sua bottiglieria, un magazzino delle emozioni, una bottega dei misteri e dei prodigi (“Trilogia Goriziana. Gaspare Buscemi, l’Archimede Pitagorico del vino” di Emanuele Giannone, in Intravino del 12/07/2013) ovvero un reparto di cantina in cui tiene in serbo le vecchie bottiglie (prevalentemente di vini bianchi), riposano e si conservano nelle migliori condizioni prodotti straordinari che vanno sotto i nomi di Alture (a partire dall’annata 2002), Braide (dal 2002), Perle d’Uva (dall’89; ma ci sono ancora bottiglie di questa tipologia, del 1987, etichettate come RiBolla), Riserve Massime (dall’87), Le Mie Ossidazioni (dall’88).
Un viaggio in taluni casi lungo anche più di trent’anni, fatto da vini bianchi, vini dall’anima possente, indissolubile, che si svelano nel bicchiere orgogliosi di raccontare territori spesso maltrattati, dimostrando come sia possibile sottrarsi all’iniquità umana grazie alla scienza e alla coscienza di chi li ha ottenuti.
Vini che sono espressione di un grande lavoro artigianale e che non temono il confronto con vini altrettanto grandi che affermano fieramente le potenzialità dell’invecchiamento.
Basta berli questi vini per coglierne la straordinaria personalità, avvertire l’armonia del gusto, percepire l’energia naturale che riconduce al cuore della terra da cui hanno avuto origine, capire che anche l’ossidazione, che è inevitabile a causa della permeabilità all’aria del tappo, conferisce qualità al vino stesso ma, forse, Gaspare avrebbe qualcosa da obiettare perché, anziché dire “bere questi vini”, riterrebbe più giusto dire “bere queste bottiglie”, che per lui sono il contenitore ideale, scelto per l’affinamento, chiuso col tappo di sughero.
Se è vero che ogni bottiglia di vino racconta una storia, una vita, queste raccontano una grande storia e una grande vita.
Come l’Alture 1982 Riserva Massima
Il capolavoro si presenta di un colore ambrato brillante che evoca l’oro satinato dei fondi oro nelle tavole del Beato Angelico o nell’Annunciazione di Simone Martini, dove il massimo dell’opulenza aurea si compendia con la semplicità dirompente dell’annuncio.
Mentre mi sperdo nella luce trascendente, The Doors attaccano “Light My Fire” illuminandomi la vita e accompagnandomi nell’immersione in quest’oro liquido per intraprendere il mio viaggio sensoriale.
Il miracolo della natura che ho nel bicchiere si manifesta con un carattere che cresce euforicamente ad ogni assaggio, col profumo croccante della buccia del chinotto, del fiore di zafferano, di quello teso e affilato della polpa del litchi, la fragranza di dattero, di miele e cera d’api, come dentro a un alveare, o l’aroma intrigante dell’Amolo Goriziano o Prunela, ovvero le susine che i contadini del Collio fanno essiccare sui graticci di vimini dopo averle sbucciate per poi imbottirle con una mandorla o una mezza noce o una foglietta di salvia.
Cerco l’ossidazione ma non c’è, nemmeno sotto forma di suggestione!
E “l’odore della terra, odor di grano, sale adagio verso me”, come in “Impressioni di settembre” della Premiata, una trama gustativa terrosa come la sua storia, “e la vita nel mio petto batte piano, il mio pensiero vola e va, ho quasi paura che si perda”.
Riannuso il bicchiere vuoto; tra effluvi d’incenso rimane un’albicocca secca grattugiata e impastata con olio essenziale di ginepro.
La vita è bella!
Da qualche anno a questa parte il mondo del vino sta riguadagnando la dignità che gli compete, distinguendo e dando sempre più importanza agli artigiani e all’artigianalità come potente rivendicazione della priorità della mano dell’uomo che diventa artefice.
Una presa di coscienza nazionale cui anche il mestiere di Gaspare ha contribuito, col suo pensiero sempre diretto all’essenza dei problemi, con il riconoscimento del ruolo primordiale della terra, il rifiuto delle convenzioni, il coraggio di sostenere le proprie idee e, anche, col tempo scandito dalle sue bottiglie, con le annate che seguiranno, memorie cristalline di un impegno fatto a propria immagine, nel quale riconoscersi e perpetuare il ricordo della natura e del lavoro.
Quello artigianale.
Quello che spesso non paga, ma appaga sempre.
Valerio Bergamini
Gaspare Buscemi
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