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I racconti di Alda: Odore di…

Veduta da Argiano

Provava la strana sgradevole sensazione di essere una ladra. Ladra di voci, di presenze fluttuanti, di passi e gesti rimasti nell’aria, prigionieri delle stanze. La villa era grande, con un piano rialzato e, nella terrazza, una torretta con una camera a due letti, un bagno e una finestra affacciata sul verde di una campagna bellissima; i fanalini sull’arco dei portoni, i cancelli un po’ sgangherati che chissà quante mani avevano spinto. E poi il giardino che girava intorno alla casa, una fetta di terreno, gli alberi di mele, i filari di viti, la fontanella antica con il suo zampillo sempre attivo. No, non mancava proprio niente, neanche le formiche giganti, i ragni che tessevano complicate tele lungo i muri e poi lassù, a tre chilometri dalla villa, una casa contro l’altra, il piccolo paese con il castello puntellato.
Era arrivata alle tre del pomeriggio con una pioggia sottile e persistente che picchiava sulla capote della macchina e sul cofano, rimbalzava nella strada schizzando tutt’intorno. Sembrava già sera, alle spalle si era lasciata l’inizio di un temporale e arrivando alla villa si era trovata in mezzo a lampi e tuoni che l’avevano spinta ad affrettarsi ad aprire e richiudere il cancello e mettersi al riparo. Le chiavi strette nella mano prima ancora di scendere dalla macchina. Tutto sapeva di autunno, l’aria, l’odore di menta, di mele e di terra bagnata. Non conosceva il posto, ma Nicola glielo aveva descritto nei minimi particolari compresa la casa, ancora prima che cominciassero i lavori di restauro, dal momento che lei, immobilizzata in un letto di ospedale a causa di un incidente, non aveva potuto accompagnarlo. Quando i lavori erano ormai completati e i mesi di degenza finiti troppe cose erano cambiate e a lei non interessava più vederla.
Richiuso il portone dietro di sé si era diretta subito in cucina per prepararsi una tazza di tè. Aveva aspettato in piedi che l’acqua si scaldasse, l’aveva versata sul tè e si era seduta con le mani strette intorno alla tazza per assorbirne il calore e per sentirsi in intimità almeno con se stessa.
Sempre tenendo la tazza tra le mani cominciò a fare il giro della casa sentendosi sempre di più un’intrusa. Che ci faccio io qui? Ho le chiavi e allora? Un giocattolo rimasto sopra una panca materializzò davanti ai suoi occhi la figura di un bambino di due anni e intorno a lui altre figure in movimento, un uomo e una giovane donna. Si girò con uno scatto, corse alla finestra. I tuoni e la pioggia erano adesso una sola cosa. E si era alzato il vento. Si accorse che nel giardino un albero si era ripiegato su se stesso, mucchi di foglie secche, frutti marciti e l’altalena che strideva muovendosi. Avanti e indietro avanti e indietro. E ancora voci e passi.
Si allontanò dalla finestra, posò la tazza ormai vuota e fredda su un grande tavolo ovale attorniato da sei sedie. Nella stanza c’era anche una credenza con ante, cassetti e cassettini. Irresistibile. Fogli, un pacco di cartoline tenute insieme da un elastico. Un quaderno, due calligrafie diverse, una data ripetuta in calce su ogni pagina. Il diario di un uomo e una donna scritto insieme giorno dopo giorno. Nicola e Cristina. Ladra ladra, ripeté più volte a se stessa. Uscì dalla stanza quasi correndo. Salì al piano dove si trovavano le camere da letto. Aprì tutte le porte, accese tutte le luci. Dunque c’erano tracce di “quelle” presenze. Un pupazzo di stoffa, una piccola locomotiva, una pila di libri gialli, alcune riviste e un foglio caduto sul pavimento. Posalo posalo, non farti altro male. Lo raccolse. Lo lesse. Sembrava una filastrocca infantile. “Nicola ama Cristina. Cristina ama Nicola? Cristina ama Nicola. Nicola ama Cristina? Nicola e Cristina si amano”. E sempre quelle due grafie diverse, quell’eterno dialogo. Anche negli armadi e nei cassettoni era stato dimenticato qualcosa, come se il trasloco fosse stato fatto in fretta e con quel pensiero rassicurante: “Anche se rimane qualcosa non staremo via a lungo. Ritorneremo”. Quelle presenze erano dappertutto.
Era stato qualche mese prima che le capitasse l’incidente che Nicola le aveva parlato della casa.
“Un affarone, credimi, anche se sarà necessario affrontare qualche spesa per restaurarla, ma ne vale la pena. Stanno svendendo ville e terreno in tutta la zona, non c’è da esitare”.
“Amo la campagna” aveva detto lei, ma senza entusiasmo, forse perché ormai da tempo tra lei e Nicola niente era più come prima, lo capiva, lo sentiva e ormai ne conosceva anche il motivo. Anche se non era stato lui a parlargliene nella vita c’era sempre qualcuno che s’intrufolava nel tuo piccolo mondo e ti informava. “Guarda, te lo dico per il tuo bene, stai attenta, apri gli occhi”. Affetto solidarietà o una segreta invidia. Per farti del male. Voi due, la coppia perfetta. “Ti voglio bene, non sopporto di vederti ingannata, tradita”. Peccato davvero che Nicola non avesse avuto il coraggio e la lealtà di “aprirle gli occhi”. Dopo otto anni di matrimonio. Forse era un bene che non avessero figli. Sarebbe stato tutto più semplice.
La villa il giardino il terreno gli odori della campagna. Al diavolo tutto, lei sarebbe rimasta nel piccolo appartamento che avevano comprato insieme, con il loro lavoro e con l’amore che li univa. Allora. In un’altra vita. Bene, quell’amore era finito, ora Nicola amava Cristina.
Quel letto d’ospedale, lei ancora con il gesso e incerottata come una mummia, lui seduto sull’unica sedia disponibile, un mazzo di fiori che nessuno sapeva mai dove sistemare e che poi finiva davanti a qualche immagine sacra. “La casa viene bene” diceva Nicola senza guardarla “ti piacerà”.
Basta con i silenzi, con le menzogne. “So tutto di te e Cristina” aveva detto lei con un tono che non le apparteneva. Rabbia stupore dolore. “Quello che non capisco è perché ne parli a me soltanto ora. Quella casa tu l’hai voluta e pensata per andarci a vivere con Cristina, non con me”.
“Io credevo, speravo che tu ed io potessimo ritrovarci, siamo sposati da otto anni, ti ho amata tanto, ti voglio ancora bene. Non…”
Lo aveva interrotto. “Tra te e Cristina è una cosa seria, va avanti da tempo, la nostra storia è finita”.
Tentare sperare. Non voleva accanto a sé un uomo di buona volontà, ma confuso, pieno di rimpianti. Infelice. Un’altra moglie avrebbe forse lottato, lei no, non a quelle condizioni. E la villa non le interessava più, che andasse a viverci lui con Cristina. Separazione e, appena possibile, il divorzio. Erano trascorsi quasi tre anni da allora. Nicola si era trasferito nella villa con Cristina, avevano avuto un bambino e quelle presenze erano ancora lì, non solo nelle cose che avevano lasciato, ma in ogni spazio di quelle stanze incollate alle pareti insieme alle voci. Nicola era morto. Si era ammalato durante un fine settimana, era stato ricoverato in una clinica, l’avevano operato. Troppo tardi. Ed era morto. Non si è mai preparati alla morte, soprattutto quando non ci sono segnali premonitori. Nicola non aveva pensato di intestare la casa a Cristina, loro non erano ancora sposati e così ad ereditarla era stata lei. L’ereditiera. Non era giusto. Per la legge la moglie era ancora lei che tuttavia, diritti o non diritti, rinunciava. Avrebbe avuto tutti contro, lo sapeva, avvocato famiglia amici. Le avrebbero detto che se non si sentiva di abitare nella villa avrebbe potuto affittarla o venderla. A lei bastava l’appartamento in città dove era stata felice con Nicola e dove non c’erano altre presenze oltre alle loro. Lì aveva ritrovato equilibrio e serenità.
Il giorno avanzava a fatica. Nessuno l’avrebbe capita, ma non aveva importanza.
C’era un intenso odore di menta, di mele marcite e di terra bagnata quando risalì in macchina. Pioveva ancora. Ingranò la marcia, mise in azione il tergicristallo, si sentiva a pezzi. Partì lasciandosi alle spalle una notte insonne trascorsa su un divano che non le apparteneva, avvolta in un plaid che aveva portato con sé. Niente di quel posto le apparteneva, come avrebbe potuto viverci? Le era rimasto addosso un amaro senso di vergogna, come se non avesse fatto altro che origliare e spiare dalle serrature. Non si voltò a guardare la casa. Aveva paura di scorgerli tutti e tre sulla porta, con le mani sollevate in un cenno di saluto, felici di vederla andare via.

Alda Gasparini

Alda Gasparini

Musicista e scrittrice, da sempre amante di tutto ciò che è bello e trasmette emozioni, si è diplomata in pianoforte e per un certo periodo della sua vita ha eseguito concerti. Poi si è dedicata al giornalismo, scrivendo recensioni e critiche musicali; successivamente ha iniziato a scrivere romanzi e racconti, pubblicati su numerose riviste di settore, ha collaborato con autori importanti come Scerbanenco e Morante. Ancora oggi scrive racconti, brevi e avvincenti, toccando molti aspetti della natura umana.

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