Brunello di Montalcino “Progetto Prime Donne” 2013 del Casato Prime Donne di Donatella Cinelli Colombini
Nella bottiglia c’è anche il vino, ma soprattutto il sogno e questo vino mi ha mandato in trance. Ricordo ancora la prima volta in cui avevo assaggiato il Brunello di Montalcino fatto dall’azienda di Donatella Cinelli Colombini, a una degustazione promossa dall’Ente Mostra Vini – Enoteca Italiana di Siena a Varsavia nel 2005, ed era fra i primi che aveva vinificato in proprio, dato che aveva cominciato soltanto nel 1998. Era talmente buono che mi stupiva che fosse stato fatto da sole donne. Questa cantina, infatti, è stata la prima in Italia a essere gestita completamente da donne e al tavolino ce n’erano tre. Ma non sono stato il solo a rimanerne impressionato, infatti il buon Tattarini, un leone di presidente con la sua vistosa criniera bianca che gironzolava intorno al tavolo centrale con del gustoso Parmigiano Reggiano, mi aveva confidato che l’azienda era sorta da poco, sì, ma aveva già ricevuto nel 2003 l’Oscar di miglior produttore italiano dall’AIS Bibenda e, proprio mentre ne stavamo degustando i vini, tutti eccellenti, era già in lizza per i Top 100 di Wine Enthusiast e anche per i migliori riconoscimenti di Wine Spectator, Wine Advocate e Jancis Robinson. Perciò non ci avevo pensato su due volte, mi ero armato di calice e avevo fatto il giro della sala per mandare a quel tavolo tutti i miei amici polacchi commentatori di vino sulle prime riviste e i primi portali specializzati in Polonia. Mariusz Kapczyński di Vinisfera.pl è stato il primo e il più fortunato, perché poi si era formata la coda.
Un successo meritato, ma come faceva la Donatella a fare vini così buoni dai 15 ettari vitati su 40 del Casato Prime Donne con tutti quegli altri gravosi impegni che aveva? Passi che è di un anno più giovane di me e che gode dell’aria salubre delle colline senesi, ma sapevo che dal 2001 era anche Assessore al turismo del Comune di Siena, che nel 1993 aveva pure fondato il Movimento del Turismo del Vino e che si era ingaggiata perfino nell’Associazione Nazionale Donne del Vino, ma non solo. Dirigeva inoltre l’enorme tenuta della cinquecentesca Fattoria del Colle a Trequanda che è un piccolo borgo con appartamenti, camere e due ville per l’agriturismo, un ristorante, la zona benessere, la scuola di cucina, quattro parcheggi illuminati, tre parchi, tre piscine, il campo da tennis e una marea di oliveti, vigne e campi coltivati per un totale di 336 ettari, dove ha recuperato con caparbietà un vitigno autoctono abbandonato da un secolo come il foglia tonda.
Non avevo ancora conosciuto però la sua energica mamma, Francesca Colombini vedova Cinelli, figlia di Giovanni e mamma anche di Stefano della Fattoria dei Barbi. Il suo Brunello nel 1983 era stato promosso da Marwin R. Shanken fra i migliori tre, con quelli di Biondi Santi e di Costanti. Da quel momento la “signora del Brunello” ottenne un successo eclatante negli USA, tanto che nel 1985 la sua Fattoria dei Barbi fu inserita da Wine Spectator tra le 100 migliori aziende del mondo in occasione della prima New York Wine Experience, l’unica diretta in Italia da una donna del vino e, insieme con quella del Greppo, le uniche due di Montalcino, determinando così con l’amico Franco Biondi Santi la straordinaria rinascita di questa città e di questo territorio che fino a quel momento languivano nel disastro economico dovuto alla fine della mezzadria e alla deviazione del traffico commerciale verso l’Autostrada del Sole a 45 km di distanza. Della serie: buon sangue non mente. E la figlia Violante Gardini, che affianca Donatella in azienda, non è certo da meno; dopo un biennio alla presidenza dei giovani Lions della Toscana dal 2008 al 2009, è stata eletta Presidente del Movimento Turismo del Vino della Toscana e dal 2016 è anche Vice Presidente dei Giovani Imprenditori Vitivinicoli Italiani.
Sono donne anche le cantiniere, l’enotecnica, la consulente enologa Valérie Lavigne (che fa la ricercatrice presso l’Università di Bordeaux ed è consulente per gli Châteaux d’Yquem, Margaux e Cheval Blanc). Tutte donne perfino le addette alla commercializzazione, perciò quest’azienda di 40 ettari che prima si chiamava Casato ha cambiato nome dal 1998 in Casato Prime Donne, quando Donatella ne ha ricevuto la proprietà. La tenuta apparteneva fin dal 1592 ai suoi antenati che l’avevano trasferita prima di padre in figlio e alla fine del secolo scorso anche di madre in figlia perché era passata dalla nonna di Donatella a sua madre Francesca e in futuro sarà di sua figlia Violante. Circondata dai boschi che scendono a Nord dal Nacciarello, si trova nella fascia più fresca dell’agro di Montalcino, quella che sta sopportando molto meglio di altre il recente surriscaldamento climatico, sul fianco di una piccola collina che scende da circa 225 metri di altitudine, ben esposta a mezzogiorno lungo la strada poderale tra Montosoli e Badia Ardenga, prima del bivio per Castiglion del Bosco. Dati i suoli ben sciolti di argilla limosa, per secoli questo territorio è stato sempre coltivato a cereali e a vigne promiscue, cioè viti allevate fra olivi, granaglie e ortaggi.
È stato Giovanni Colombini (il nonno di Donatella che è ricordato come un innovatore, un pioniere della viticoltura a livello mondiale e che nel 1935 era tornato a Montalcino con la moglie Giuliana Tamanti e la figlia Francesca) a piantarci le prime vigne a coltura specializzata, cioè soltanto viti, per ricavarne un buon vino da commercializzare. Era un uomo di grandi vedute, era stato il primo a scrivere sulla necessità di una trasformazione della vecchia economia agraria e durante la seconda guerra mondiale aveva diretto con buonsenso ed energia l’alimentazione della Provincia di Siena, compito che svolse a modo suo nutrendo imparzialmente cittadini, soldati tedeschi, partigiani ed ebrei, pur essendo stato nominato podestà dal governo fascista tramite un regio decreto nel 1936, carica che gli venne rinnovata ancora per alti meriti amministrativi e che ricoprì fino al 1943, riscuotendo la stima e l’affetto di tutti gli ilcinesi.
Coerente con le proprie teorie, coniugò sempre qualità e quantità, infatti il suo Brunello 1964 ottenne il Torchio d’Oro (il più importante premio italiano dell’epoca) come miglior vino rosso nazionale. Se altri hanno il merito di aver creato e perfezionato il Brunello, è stato Giovanni Colombini a farlo conoscere e ad aprire tutti i principali mercati del mondo. È stato anche il primo in Italia già nel 1960 a spalancare le porte della sua cantina al pubblico che poteva visitarla tutta e non soltanto acquistarne i vini a prezzo sorgente, promuovendo così il turismo enologico. Una passione trasmessa alla nipote Donatella che ha ideato e lanciato le Cantine Aperte a livello nazionale, tanto da muovere milioni di enoturisti e da ottenere la nomina a Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica nel 2014 e poi la presidenza nazionale delle Donne Del Vino nel 2016 che le è stata riconfermata ancora da poco.
Oggi gli ettari vitati sono 16,5 divisi in 4 appezzamenti piantati fra il 2001 e il 2006 con una densità di 5.500 ceppi di sangiovese per ettaro allevati a cordone speronato secondo i dettami della viticoltura biologica dal 2014 da 8 vignaioli che diventano 22 durante la vendemmia, senza usare prodotti della chimica di sintesi, per una resa media di 55 quintali di uva per ettaro. Le viti sono più sane e più resistenti grazie alla cura manuale e al sistema di potatura messo a punto da esperti di valore internazionale come Marco Simonit e Pierpaolo Sirch contro il mal dell’esca che colpisce purtroppo un po’ qua e un po’ là alcune storiche vigne di Montalcino.
Ogni anno vengono selezionate e raccolte per la produzione del Brunello soltanto le uve più adatte a fare un vino di grande prestigio e solamente se la stagione è favorevole la quantità risulta maggiore. Le bottiglie prodotte annualmente possono variare appunto a ogni vendemmia a seconda dell’andamento delle annate (per esempio 17.000 nel 2011, 34.000 nel 2012, 35.000 nel 2013, 26.000 nel 2014), ma senza forzare i processi naturali. In coerenza con la scelta di coltivare le uve secondo i metodi biologici già dal 2014, di recente sono state fatte anche in cantina quelle ristrutturazioni tecnologiche indispensabili per vinificazioni molto rispettose del fruttato che viene fuori con freschezza anche dopo cinque anni di maturazione e affinamento. Si nota, infatti, che il Brunello qui non è ”palestrato”, ma è ispirato alle tipologie tradizionali dove tutto era giocato sull’eleganza, l’armonia e la verticalità di vini caratterizzati da purezza aromatica e che sono molto austeri nei primi anni di vita, ma hanno grandi capacità d’invecchiamento.
Niente surmaturazioni, niente barriques e due diverse tinaie per trattare le uve. Quella tradizionale è stata dotata di tini in cemento nudo non vetrificato, da quelli grandi cilindrici a quelli piccoli sagomati come uova; si trova in un grande locale a soffitto molto alto con il tetto a capriate di legno, in modo da assicurare una fermentazione e un’evoluzione lenta dei mosti in un ambiente a bassa ossidazione, per cui alla fine se ne ricavano vini perfettamente maturi, ma più freschi. Quella tecnologicamente più innovativa è fuori, all’aperto, sotto una tettoia, aperta su tre lati ed è stata progettata proprio per assicurare alle follature un continuo ricambio dell’aria pura che proviene da questa conca tra l’Ombrone, l’Asso e l’Orcia, tanto che la chiamano Tinaia del Vento; è una batteria di tini tronco-conici di ultima generazione in acciaio inox con sistema di raffreddamento e riscaldamento e aperti nella parte superiore per consentire il movimento di un follatore meccanico montato su rotaia che fa sommergere la vinaccia spostandosi però su tutta la circonferenza dei vari tini e permette di vinificare separatamente ogni parcella e ogni giornata di vendemmia e senza usare pompe di alcun genere.
L’intero progetto è nato dalla collaborazione del Casato Prime Donne con la società veronese Oliver Ogar. Per realizzarlo è stato ottenuto un finanziamento dall’Unione Europea allo scopo di studiare le biodiversità e la selezione dei ceppi di lieviti indigeni antichi in un esemplare rapporto fra la scienza, la tecnologia e il patrimonio inestimabile dell’unicità del Brunello per farlo esprimere al meglio e secondo natura. Tutti i produttori che hanno convertito al biologico e al biodinamico i propri vigneti mi hanno detto che hanno deciso di farlo per coltivarli in equilibrio perfetto allo scopo di avere viti sane e capaci di reagire da sole alle avversità del clima e degli insetti nocivi, per ricavarne un’uva di qualità superiore, ma anche per abitare e lavorare fra le vigne senza assorbire neanche in minima quantità sostanze chimiche cancerogene. Come scrive Ilio Raffaelli nel suo opuscolo Produrre Brunello biologico è possibile, “oggi per stare al passo con i tempi la priorità assoluta è la difesa delle nostre vigne dall’inquinamento, e produrre Brunello biologico” e Donatella sta realizzando appunto anche questo sogno di suo nonno Giovanni Colombini (descritto negli atti di un suo intervento del 1974 all’Accademia italiana della vite e del vino).
Montalcino è per sua scelta una città del ”bio” e tutti i viticoltori che hanno fatto questa scelta si stanno impegnando per ridurre il solfato di rame, per imparare a usare alcuni funghi e altri presidi naturali come le alghe, per indurre in confusione sessuale gli insetti nocivi e combatterli aumentando i predatori già presenti nell’ambiente e creando equilibri biologici che rafforzano le difese immunitarie delle viti. Purtroppo non basta per ottenere la distinzione con il bollino europeo rilasciato ai prodotti dell’agricoltura biologica controllata e certificata, poiché viene assegnato soltanto se in cantina non si aggiungono solfiti a quelli prodotti naturalmente dal mosto in fermentazione per non superare limiti molto più restrittivi di quelli consentiti invece per tutti gli altri vini. Una cosa assurda, anche perché se gli altri vini sono salubri fino ai limiti consentiti dalla legge non si capisce perché stabilire limiti diversi per i prodotti ”bio”. Alcuni cantinieri si sono impegnati allora a pulire le botti con altri metodi come le lampade sterilizzanti o il vapore e a usare differenti sistemi di conservazione dei vini per certi periodi in botti appositamente sigillate e saturate di gas inerti e a temperatura controllata, imbottigliando perfino sottovuoto o con l’immissione di azoto dentro il collo della bottiglia, ma sono tutte soluzioni molto costose.
Bisogna tornare a permettere a vitivinicoltori come il Casato Prime Donne di scrivere in etichetta ”da vigneti biologici” e di mettere perfino il vecchio bollino ”agricoltura biologica” perché vinificano uve eccellenti che sono però penalizzate dal pH più alto che si sta notando nell’ultimo quarto di secolo a causa del surriscaldamento del clima, perciò devono usare comunque un minimo di metabisolfito di potassio in cantina per evitare le cosiddette ”puzzette”. Il pH alto favorisce i batteri lattici, quelli acetici e di altre famiglie che vanno a confondersi con i lieviti in fermentazioni non proprio ”pulite”, ma miste di lieviti e batteri da cui derivano vini che sembrano ”sporchi”, con effetti negativi sulla finezza espressiva per l’abbassamento della qualità dei profumi varietali a favore di quelli post-fermentativi. Secondo me va premiato il miglioramento della pulizia olfattiva dei vini ”bio” permesso da investimenti come questo. Ricordo benissimo com’era quel Brunello di Montalcino di Donatella degustato a Varsavia nel 2005. Quello fatto dopo i nuovi investimenti è invece caratterizzato maggiormente da un aroma ancora più marcato di confettura di ciliegie e spezie ed è molto più deciso, complesso, profondo, armonico e morbido. Nelle annate strepitose sarà sicuramente più longevo, ma anche in quelle meno fortunate è diventato qualitativamente ottimo grazie alle nuove tecnologie, sebbene in quantità inferiori a causa di una maggior severità selettiva.
Il Brunello 2013 viene da un’annata in stile classico, con un inverno però molto piovoso e nevoso e una primavera in cui il freddo e la pioggia avevano fatto abortire parte dell’allegagione, disturbando la fioritura. I grappoli raccolti sono stati più piccoli e in gran parte spargoli. L’invaiatura (cambiamento di colore degli acini) è stata molto lunga. Temperature estive più basse degli anni precedenti, con i terreni ricchi d’acqua e un ciclo vegetativo più lungo danno di solito origine a vini longevi, complessi e memorabili perché la maturazione dell’uva si fa più lenta e la vendemmia (con raccolta e selezione a mano dei grappoli uno per uno principalmente nella vigna Ardita per il Brunello di Montalcino 2013 della selezione ”Progetto PRIME DONNE”) è avvenuta il 26 e il 27 settembre. Le uve sono state consegnate in meno di mezz’ora alla cernita in cantina, dove sono state ripulite dalle impurità e perfino dagli acini imperfetti nella polpa e nella buccia, con i vinaccioli perfettamente lignificati. In un primo momento, tuttavia, la minor produzione non consentiva a tutti di prevedere l’eccezionalità dell’annata 2013. Come avviene sempre nel febbraio successivo alla vendemmia, infatti, era stata giudicata da 4 stelle e invece, dopo la maturazione in botte, si è rivelata di straordinaria complessità, eleganza e finezza anche rispetto a quella del 2012 giudicata a 5 stelle e attualmente il giudizio unanime la ritiene migliore della precedente, riaprendo la discussione di cui avevo già anticipato qualcosa in un articolo precedente sull’attribuzione del valore della vendemmia a pochi mesi dalla nascita del vino, com’era già capitato con l’annata 1999, una delle migliori del Novecento a Montalcino.
Dopo la diraspatura e la pigiatura il mosto è stato vinificato in 15 giorni in piccoli tini di acciaio inossidabile tronco conici a cappello aperto muniti di termoregolazione e di sistema meccanico di follatura. La dimensione dei tini ha consentito di vinificare separatamente le parcelle che venivano vendemmiate ogni giorno. Alla fermentazione alcolica sono seguiti 10-15 giorni di macerazione sulle bucce. Dopo la svinatura, il vino è maturato per un anno in tonneaux da 7 hl di rovere francese provenienti da 4 piccole tonnelleries artigiane che tagliano il legno a spacco seguendo la linea naturale delle venature e poi ha completato la maturazione in botti da 15-40 hl di rovere di Slavonia e l’affinamento in vetro nelle 6.300 bottiglie prodotte. Prima dell’imbottigliamento il Brunello ha fatto una sosta in contenitori di cemento nudo. Non è stato filtrato.
Violante Gardini considera il Brunello di Montalcino ”Progetto PRIME DONNE” come il vino bandiera del Casato Prime Donne. L’idea di fare questo vino è nata nel 1998, quando gli assaggiatori delle guide italiane dei vini erano soltanto uomini e Donatella aveva deciso di riunire almeno una volta l’anno un gruppo di grandi esperte donne per degustare alla cieca il vino di botti diverse e scegliere insieme quello che piaceva di più e decidere la tipologia delle botti, la durata della maturazione e il taglio del futuro Brunello di Montalcino ”Progetto PRIME DONNE”. Si tratta della Master of Wine britannica Rosemary George, dell’enotecaria tedesca Astrid Schwarz, della PR italo-statunitense Marina Thompson e di Daniela Scrobogna, una delle migliori sommelier e docenti italiane. Interamente pensato da donne, lo stile è quello più tradizionale, tipico di un Brunello destinato a un lungo invecchiamento.
Di colore rosso rubino di grande brillantezza, il vino lascia archetti persistenti sulle pareti del calice. Il bouquet degli aromi è fine e complesso all’attacco, poi si fa profondo e spazia dalla violetta passita a un elegante ricordo ematico, evidenziando in sequenza profumi di ciliegia, corniola e scorza di arancia tarocco fino a un tocco esotico di spezie dolci con una punta di buon cuoio. In bocca si apre con grande piacevolezza e ai piccoli frutti rossi maturi si accompagnano note di confetture di piccoli frutti neri come sambuco, prugne e ribes nero che si fondono armoniosamente con toni delicatamente speziati. I tannini morbidi, setosi come una camicetta di Burano e la solida struttura acida sono ben bilanciati dal garbo dell’alcool e dalla sontuosità del fruttato che arricchisce la finezza e la piacevolezza della beva con un finale lungo e carezzevole.
La vocazione al lungo invecchiamento, almeno 25 anni e oltre, va sostenuta tenendo le bottiglie distese, al buio, al freddo e approfittando della sostituzione dei tappi dopo i primi 20 anni che il Casato Prime Donne effettua e certifica nella propria cantina. È un vino per le grandi occasioni con piatti importanti di carne e ricchi di sapore come arrosti e brasati, formaggi stagionati come grana riserva, parmigiano e pecorini stravecchi. Se lo lasciate invecchiare nella cantinetta casalinga, però, suggerirei un’ossigenazione lenta, stappando la bottiglia qualche ora prima, circa un’ora per ogni anno dalla vendemmia, per poi versarlo nel calice con molta accortezza, piuttosto che scaraffarlo con un’ossigenazione troppo veloce (operazione purtroppo necessaria al ristorante e che, in ogni caso, non lascerei fare nei decanter a collo stretto). Sarebbe meglio decantarlo in brocche a collo largo oppure in coppe o in calici molto grandi. Il tenore alcolico di questa selezione fatta dalle esperte del Progetto Prime Donne è del 13,5%. Per apprezzarlo maggiormente andrebbe servito a temperatura di 18 °C, rinfrescandolo se la temperatura ambiente è più calda, come avviene di solito in estate.
Permettetemi un’ultima considerazione, ma la ritengo indispensabile. La freschezza di questo vino è straordinaria, direi eccezionale. Buono già adesso, non c’è dubbio, è fatto da donne ed è comprensibile che sia un amore a prima vista, un colpo di fulmine, ma la freschezza che ha dimostrato mi fa pentire amaramente di averlo stappato prima ancora dei 6 anni di età. Sono più che certo di aver colto fin troppo presto un bocciolo di rosa rossa da mille e una notte in alcova con l’amata. Una leggiadria così è rara in un Brunello di Montalcino. Potete anche non credermi, ma ho gli occhi lucidi.
Mario Crosta
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