Stagionalità: un valore da conservare o aggiornare?
I mandarini a marzo. Le ciliegie a luglio e l’uva senza semi. La parola “stagionalità” è da maneggiare con cura. Soprattutto in un paese stretto e lungo come l’Italia, dove il clima cambia sensibilmente dalle pendici delle Alpi alla Sicilia meridionale.
Domenica 4 marzo 2018, più o meno in concomitanza con l’uscita dei primi exit poll delle elezioni politiche che ci avrebbero fatti entrare nell’attuale legislatura, la diciottesima, Luciana Littizzetto nel suo consueto spazio a “Che tempo che fa” si dedicava alla frutta fuori stagione. Ma non solo.
Con la sua consueta verve si scagliò contro i mandarini a marzo, le ciliegie a luglio e poi, non contenta, contro l’uva senza semi, che in natura, secondo lei, non dovrebbe esistere. Sottolineava l’oramai avvenuta trasformazione dei pomodori in gavettoni senza sapore e la constatazione di come le susine avessero ormai una consistenza simile a quella di una pallina da tennis e un’astringenza quasi da caco acerbo.
Invocare lo sfregio in atto nei confronti della stagionalità di frutta e verdura è pratica diffusa e nazional-popolare. Impossibile non essere d’accordo – a rischio di sembrare dei semplici provocatori – con chi sottolinea la necessità di mangiare determinati alimenti al giusto momento, che coincide anche con il loro picco organolettico, o con chi invoca i benefici di una dieta attenta ai colori e ai gusti di stagione.
Qualche giorno dopo la messa in onda dello show della Littizzetto, più di un giornale di settore fece notare il numero di inesattezze, se non proprio gravi errori, che la comica torinese era riuscita ad inanellare in circa 10 minuti nel suo intervento davanti a milioni di persone.
I mandarini a marzo? Esistono da sempre quelli tardivi. Le ciliegie a luglio? In Trentino non solo sono di stagione, ma si differenziano per pezzatura e gusto davvero notevoli e non certo perché “molli e piene di vermi” come sottolineato dalla comica. L’uva senza semi? No, non è una delle tante diavolerie inventate da qualche ricercatore pazzo, ma al massimo una dimostrazione della ricchezza presente in natura, copiata poi dall’uomo per produrre quelle varietà dai nomi invero curiosi (Sugraone, Sugraeighteen, Crimson etc.) che ormai è consuetudine trovare nei mercati o nei reparti ortofrutta.
La parola “stagionalità” è probabilmente una delle più scivolose tra quelle presenti nel settore agroalimentare, da maneggiare con cura. Soprattutto in un paese stretto e lungo come l’Italia, dove il clima può essere continentale o quasi sub-tropicale e dove le fragole possono essere realmente di stagione a fine dicembre in Sicilia così come a ottobre in Veneto, crescendo bene nel periodo di mezzo in così tante altre regioni che si fa prima a specificare il breve periodo nel quale in effetti non sono di stagione.
Certo, l’uomo ci ha messo del suo e senza scomodare le serre riscaldate olandesi o i famigerati Ogm, incrociando e sperimentando siamo costantemente alla ricerca di nuove varietà per cercare di conquistare nuove fette di mercato con nuovi gusti e sapori e quindi allargare la finestra commerciale, ovvero la stagionalità, di molti ortaggi e altrettanti frutti. Lo abbiamo sempre fatto, anche quando non avevamo le conoscenze e i mezzi ora a disposizione.
Quindi, che cos’è, oggi, la stagionalità? È un vecchio orpello del passato ormai superato e da rottamare o è invece un concetto da continuare a preservare e diffondere, ma giocoforza da integrare e aggiornare? Se da una parte è discutibile cercare con assiduità determinati ortaggi tutto l’anno, quando la stagionalità classica ci offrirebbe altre soluzioni, consentendoci così di variare una dieta che anche per motivi salutistici, e non solo gourmet, ha bisogno di ricchezza ed eterogeneità, dall’altro non prendere in considerazione innovazioni e cambiamenti che vanno incontro a gusti e bisogni che mutano nel tempo può quasi apparire una battaglia di retroguardia un po’ fuori dal tempo. Una presa di posizione che poi, inevitabilmente, nella sua forma più semplicistica porta a cadere in vere e proprie gaffe come quelle enunciate, sicuramente in buona fede, dalla comica piemontese.
Per concludere. Nel mondo del vino da qualche anno si comincia a parlare con più frequenza dei vitigni PIWI, abbreviazione di pilzwiderstandfähige, vale a dire resistenti ai funghi, quindi alle classiche malattie come oidio e peronospora senza l’utilizzo di trattamenti. Alle spalle c’è una lunga ricerca frutto di studio e incroci per ottenere varietà ibride che possano essere allevate e dare origine a vini che abbiano un loro carattere. È un percorso ancora in fieri, proprio sul fronte della personalità, come sicuramente si saranno accorti tutti quelli che hanno cominciato a degustare e bere i vini di questa categoria che piano piano è possibile trovare in commercio, prodotti per ora esclusivamente in alcune zone della Lombardia, del Trentino e dell’Alto Adige. Come approcciarsi a questi vini? Vanno trattati con superficialità e distacco, perché non “autoctoni” o “tradizionali” e quindi figli di un dio minore, o con apertura e curiosità, considerando che cercano peraltro di perseguire il fine ultimo della sostenibilità, tema ormai francamente ineludibile e difficilmente attaccabile?
Spesso si dice che l’innovazione di oggi sia la tradizione di domani. Non tutta ovviamente. Anzi, solo alcune innovazioni sono realmente tali e hanno la forza di entrare nel futuro, altre svaniscono con la stessa velocità con la quale sono nate. Ma voltare le spalle a priori, è un approccio cieco, reazionario e inutilmente conservatore.
Alessandro Franceschini
Questo articolo fa parte dell’inserto de La Glottide del 22 marzo 2021 dedicato alla stagionalità degli alimenti, che potete scaricare qui.