“Pulpeti da verzi” e Montefalco Rosso
Quelle che a Busto Arsizio si chiamano ”pulpeti da verzi” in altre parti d’Italia si chiamerebbero polpette in verza (o nel cavolo) oppure verzini, ma anche verzolini e consistono in palline d’impasto di carne fasciate nelle foglie di verza. Sono delle vere e proprie leccornie, se preparate come si deve. Giovanni Rajberti, un poeta milanese di due secoli fa, nel suo libro ”L’arte di convitare spiegata al popolo” edito nel 1850 aveva scritto: ”Le polpette sono una vivanda affatto italiana, anzi direi esclusivamente lombarda, per informazioni attinte da autorità serissime in questa materia. Difatti, nel mio viaggio scientifico del 1845, in occasione del settimo congresso dei dotti, non mangiai e non vidi mangiar polpette né a Napoli, né a Roma, né a Genova; e sì che io, da osservatore attento e coscienzioso, passavo dai più rispettabili alberghi alle più modeste osterie del popolo. La vera metropoli delle polpette è Milano, dove se ne fa grande consumo; dove mi ricordo aver sentito molti anni addietro un vecchio conte a esclamare: «Se si potesse raccogliere tutte le polpette che io ho mangiate in vita mia, vi sarebbe da selciare la città dalla Piazza del Duomo fino al dazio di Porta Orientale»”.
Come possiamo facilmente immaginare, con il passare del tempo anche le polpette, come tutte le ricette che contengono carne macinata, hanno dovuto subire manipolazioni aberranti da parte di pasticcioni in cucina che nelle peggiori taverne le confezionavano e le farcivano con materie scadenti o peggio ancora con i residui avanzati dei pasti, abbondando nelle spezie per mascherare il cattivo sapore. Il nonno Pino, invece, anche nei periodi di miseria seguiti alla seconda guerra mondiale non ha mai voluto fare le polpette di verza per pulire la dispensa. Anche quando i soldi erano veramente pochini, mi mandava dal macellaio a comprare la coppa di manzo, detta anche reale, che è il taglio magro sopra la spalla del bovino adulto. Dopo il biancostato, buono per fare il bollito, era la carne che costava meno, ma andava rigorosamente fresca e non la voleva macinata, ma se la tritava in casa con la macchinetta a manovella fissata per l’occasione sul bordo del tavolo, passandola anche due volte. Gli ingredienti, quindi, sono essenziali e vale la pena rivolgergli tutte le attenzioni possibili. Ovviamente, qui descrivo le polpette preparate e cucinate alla bustocca, anche se la letteratura culinaria ne prevede anche di altro tipo. Lo scrittore Giorgio Bassani, ghiottissimo di polpette, specialmente quelle di sua mamma Dora, segnalò in Brianza delle polpette di magro ripiene soltanto di verdure (sedano, carote e patate), cotte in sugo di pomodoro. Nella Bergamasca ne ho assaggiate con la verza che avvolge la pancetta tritata e nel Varesotto altre con la verza che avvolge la mortadella di fegato tritata.
La verza
La verza (detta anche cavolo verzotto o cavolo di Milano) è una verdura popolare presente sul mercato tutto l’anno a basso prezzo e con scarto minimo, ma bisogna saperla scegliere e cucinare. Al momento dell’acquisto deve avere le foglie esterne color verde scuro, prive di macchie giallastre e dev’essere compatta, con le foglie interne, di colore più chiaro, chiuse a palla. Il cavolo verza non dev’essere troppo grosso, perché le foglie risulterebbero dure e indigeste. Prima della cottura, è necessario privarlo delle foglie esterne verdi scure e dure; le altre foglie, staccate una a una, vanno lavate accuratamente sotto l’acqua corrente.
Il ripieno
Il nonno Pino pretendeva la coppa di manzo, cioè il reale. E la nonna Emilia preferiva pezzetti di pane raffermo bagnati nel latte al posto del pane grattugiato. È poi vero che nell’anarchia odierna delle diverse cucine si può trovare di tutt’altro un po’, per esempio qualsiasi altra carne trita invece del reale di manzo, salame al posto della mortadella di fegato, prosciutto o salsiccia in luogo della pancetta tesa affumicata, ma il grosso delle varianti è stato raggiunto con l’immigrazione che ha portato con sé anche altre fantasie. Non tutti prevedono il soffritto di cipolla, altri vorrebbero anche la sfumatura dell’intingolo con il brodo insieme con il vino bianco e qualcuno perfino l’infarinatura delle polpette. Qualche manina un po’ troppo lesta aggiunge anche la noce moscata fra gli aromi. Senza parlare di chi ci mette ancora un uovo, se non due, per renderle più compatte, invece andrebbero morbide.
Ingredienti per 6 persone:
- 300 g di coppa (reale) di manzo macinata
- 50 g di mortadella di fegato tritata a coltello
- 30 g di pancetta affumicata tritata a coltello
- 1 spicchio d’aglio
- 1 cipolla media
- 1 mazzetto di prezzemolo
- 50 g di parmigiano grattugiato
- 20 g di pangrattato (o pezzetti di pane raffermo bagnati in mezzo bicchiere di latte)
- 1 uovo
- 600 g di foglie tenere di verza
- spago da cucina o cucirino non colorato
- 40 g di burro
- 3 foglie di salvia
- 1 bicchiere di vino bianco
- un bicchiere di passata di pomodoro
- sale quanto basta
Impastate e amalgamate bene il macinato di manzo con la mortadella di fegato e la pancetta. Mondate e tritate finemente lo spicchio d’aglio e mezza cipolla. Lavate, tritate finemente e aggiungete all’impasto le foglie di prezzemolo, il parmigiano, l’uovo e il pangrattato (o i pezzetti di pane raffermo bagnati nel latte). Amalgamate bene e modellate delle polpette un po’ più grandi di un uovo.
In una padella a bordi alti con acqua salata sbollentate appena, soltanto per ammorbidirle) le foglie più belle del cavolo verza. Avvolgete ogni polpetta in una foglia di verza e legatela con lo spago da cucina o con un cucirino non colorato. Scolate bene la padella e asciugatela. Tritate e fate soffriggere nel burro in questa padella l’altra mezza cipolla con 3 foglie di salvia pulite per qualche minuto a fuoco medio.
Aggiungete le polpette, rosolandole dalle due parti per qualche minuto, bagnandole con cucchiaiate di vino bianco. Aggiungete la passata di pomodoro e regolate di sale. Fate cuocere ancora per quarto d’ora, poi servite in tavola. A piacere, potete guarnire con del riso in bianco bollito a parte (anche per il riso occorrerà lo stesso tempo), oppure con delle fettine di polenta.
Il vino Montefalco Rosso dell’azienda agricola Napolini
Anni fa sono stati il sommelier Massimiliano Beretta e la titolare di ”Moja Italia…prosto z winnic”, Kamila Gurdala a presentarmi in Polonia questa piccola azienda di Montefalco che da allora non ho più dimenticato, perché fa un Montefalco Rosso simile a quello che avevo appena scoperto nel 1980 in un’enoteca di Spoleto e che era stato così buono da invogliarmi a fare una lunga gita in quel borgo appollaiato su un colle, circoscritto dalle mura e circondato di fattorie per poterne assaggiarne degli altri. Quel vino, fatto in gran parte con sangiovese in taglio con sagrantino, montepulciano e ciliegiolo, era proprio una carta da visita del territorio: trasparente, luminoso, tutto ciliegie, ribes rosso, visciole, garofani e straordinariamente fresco, ma morbido, vellutato, fine, equilibrato e così diverso dai corposi vini rossi del Piemonte e della Toscana, perciò sono andato di corsa con la mia ’500 in quel paesino appollaiato su un colle, circoscritto dalle mura e circondato di fattorie, dove però in certi posti non si poteva nemmeno passare a causa del rischio di cadute di calcinacci.
Gli stupendi vini che avevo acquistato in quel paese, però, li ho bevuti soltanto lì e non li ho più trovati da nessuna parte. A Milano si trovava il Sagrantino di Montefalco, che è diverso dal Rosso, tanto diverso: colore rubino molto fitto dai riflessi viola, profumo di mora, frutti di bosco e prugna, è caldo, avvolgente e robusto, in linea con le caratteristiche organolettiche fissate prima dalla DOC e poi dalla DOCG. Il disciplinare è di successo, di fama internazionale, ma… per un vino che veste in doppio petto con le scarpe di cuoio luccicanti, la cravatta firmata, l’orologio d’oro e che va di moda fra i buyers della City di Londra o di Manhattan Square a New York, mentre quell’eccellente Rosso era stato relegato in un angolo, trattato alla stregua dei vinelli da osteria e non usciva dalla zona. Un vino dalle scarpe grosse, le mani callose, i pantaloni di fustagno e un cappello fatto piegando i fogli dei quotidiani.
Il successo che ha fatto il Sagrantino ripaga certo gli investimenti, ma lo ha reso un vino di stile più forestiero, di sicura gran cassa nel senso di great money, che ha conquistato i giapponesi e i cinesi con le loro cucine orientali e gli americani che notoriamente mettono il ketchup… anche sulle torte al limone della nonna o sui fiocchi d’avena bagnati dal latte. Anche Massimiliano e Kamila sono stati quella volta testimoni di questa mia personale preferenza gustativa per il Montefalco Rosso piuttosto che per il Sagrantino di Montefalco, almeno finché non verrà ringiovanito il disciplinare e non si potrà tornare a gustare dei vini che abbondino un po’ di più in freschezza, magari smettendo di abusare di barriques tostate al punto da cedere estranei odori di vaniglia. Vini per deliziare il palato delle famiglie che si raccolgono intorno alla tavola nei giorni di festa piuttosto di quello degli anglosassoni che prediligono i vini da culto e meditazione.
Noi viandanti bevitori che frequentiamo le trattorie per diletto, per goduria e rifuggiamo le luci della ribalta riservate ai vip abbiamo bisogno di non limitare i sapori a quelli che ci propina l’ipermercato. Auspichiamo la difesa a oltranza dei formaggi da latte crudo, degli insaccati con la carne tagliata a punta di coltello, perciò anche dell’olio e del vino dagli aromi e sapori naturali e tradizionali. Sono contento di poter bere ancora del Montefalco Rosso come si comanda, fatto da tanti piccoli produttori, tra cui l’azienda agricola Napolini che si trova un paio di chilometri a sud del borgo antico sulla strada che porta all’abbazia medioevale di Santa Maria in Turrita (GPS Lat. 42.876766 N, Long. 12.662709 E) e si estende su circa 30 ettari in una zona particolarmente vocata alla vite, ma che produce anche un ottimo olio extravergine di oliva.
Una cantina piccola, ma dotata d’impianti moderni per la vinificazione in vasche di acciaio inox, di botti di rovere francese e Slavonia e di una veloce linea di imbottigliamento. L’azienda, amministrata da Tiziana Scattini, si estende su circa 30 ettari dai suoli tendenti all’argilloso. Le vigne sono esposte a est e vengono coltivate in regime biologico non certificato, con il minimo utilizzo di solfiti e di rame. Il sistema d’impianto è a cordone speronato con varie densità dai 3.000 ai 4.000 ceppi per ettaro.
Le uve del Montefalco Rosso (in genere Sangiovese 60%, Sagrantino 15%, Merlot 15% e Montepulciano 10%) sono raccolte a mano nelle prime due settimane di ottobre e l’enologo Mario Napolini, figlio di Matteo, ne cura l’immediata pigiatura, la fermentazione del mosto con macerazione sulle bucce per un periodo che va da 18 a 20 giorni, la maturazione del vino per 12 mesi in botti di rovere di Slavonia e l’affinamento per altri 6 mesi. Il colore di quello dell’annata 2015 è rosso rubino brillante con sfumature granate. Aromi puliti di ciliegia matura, ribes rosso e piccoli frutti di bosco, con gradevoli note delicate di sottobosco e di spezie. Gusto equilibrato caldo, tannini non aggressivi, buona persistenza, in chiusura una piacevole nota speziata. Tenore alcolico intorno al 13,5%. Succoso e intrigante con le polpettine vegetali, esalta le pietanze a base di carni rosse grigliate, arrosti di maiale e di cacciagione di piuma, primi piatti saporiti come tagliatelle, risotti e ravioli al tartufo e ai funghi. Consiglierei di servirlo a 18 °C.
Mario Crosta
Azienda Agraria Napolini
Loc. Gallo 71 (vocabolo Colle Arfuso), 06036 Montefalco (PG)
tel. 0742.379362 e 0742.371119
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e-mail info@napolini.it