Il nuovo aglianico di Fonzone: Mattodà 2019
Sarà stato anche per la sua vivace tradizione di artigianato alimentare che la Campania era definita, presso i Romani, terra “felix”, cioè fertile ma anche felice, gioiosa dei prodotti che la natura, congiuntamente con la cultura, fantasiosa e zelante del luogo al tempo stesso, riusciva a creare; sarà, ma la regione, del resto, continua a essere conosciuta nel mondo (e senza eccessiva ovvietà) per la bontà e l’unicità di prodotti che rimangono il simbolo, anche cromaticamente dell’italianità. E che, oltre a ciò, in Campania la coltivazione della vite venga favorita dalla presenza di una superficie collinare per oltre il 50% e montuosa per oltre il 30 e che in tale contesto ondulato i circa 25.000 ettari coltivati a vigna con scenografici (nel vero senso della parola) vigneti ai piedi del Vesuvio, nelle isole di Ischia e Capri, nella penisola sorrentina o nel serafico altipiano irpino, non è dato poi così scontato.
Di fatto, uno degli aspetti della Campania e in particolare dell’Irpinia che mi ha sempre stuzzicato è quello relativo alle etichette, le cui preferibili provengono, con pochissimo margine di dubbio, da vitigni autoctoni.
Già, una regione che può vantare, a pieno diritto, una quantità smisurata di varietà come testimoniato da Virgilio nelle sue Georgiche impossibile da elencare o, al limite, come suggerito da Plinio, suddivisa in tre classi di ordine qualitativo, quasi a suggerire una produzione di storia più di quanta se ne possa digerire.
Dicevamo quindi dell’Irpinia, terra celebre per i suoi grandi bianchi ma anche di rossi, altrettanto degni di menzione e caratterizzati ugualmente da varie sfaccettature.
Siamo a Paternopoli, precisamente in località Scorzagalline, nel bel mezzo, guarda caso, di una seducente ondulazione, dove la famiglia Fonzone dal 2005 comincia un appassionante, e al contempo appassionato, progetto vitivinicolo. Protagoniste sono le principali e prestigiose cultivar locali, ovvero Greco di Tufo, Fiano di Avellino, Falanghina e the last but not least, come dicono nella terra d’Albione, sua maestà l’Aglianico. Già, l’Aglianico, il miglior vitigno dell’antichità, per non dire vitigno-popolazione perché poco ci manca, data la sua suddivisione in svariati di biotipi e sottovarietà. La cosa incerta rimane soltanto il dubbio se quello moderno sia uno dei vitigni che hanno reso famosi nell’antichità i vini della Campania felix, in particolare quelli dell’Ager falernus; mentre l’elemento certo rimane invece la sua enorme propensione all’invecchiamento, consentita dalla potente struttura, da un’acidità pronunciata e dall’elevato tenore di tannini e di estratto che derivano dalla maturazione tardiva delle sue uve.
Nei manuali di enologia si trova scritto che nelle zone alte di Paternopoli, così come nelle zone analoghe di Montemarano e Castelfranci, da tale pianta si ricavano vini di grande potenza e alcolicità. Sicuramente in passato le caratteristiche erano tali, ma con Luca D’Attoma la cantina Fontone è riuscita nell’intento di creare un “rosso fuori dagli schemi innovativo, capace di interpretare in maniera originale un vitigno unico nel suo genere”: una sfida che l’enologo ha raccolto e che la famiglia Fonzone ha sostenuto con entusiasmo, al punto da battezzare il nuovo vino Mattodà, un nome che rende omaggio proprio a lui, rievocandone il cognome in una quasi e bizzarro vacabolo palindromo. Una dinastia, quella appunto dei Fonzone Caccese, che possiede davvero rari eguali in termini di accoglienza, acume e simpatia: insomma, la corretta dose che necessita l’imprenditorialità moderna.
“Un nettare inossidabile”, aggiunge ancora Luca, frutto di interminabili riflessioni sia tra i filari ma anche in cantina. Le uve da cui si ottiene il Mattodà Irpinia DOC Campi Taurasini 2019 provengono quindi dal vigneto di Aglianico della stessa tenuta, a Paternopoli, che si estende lungo i due versanti di una collina ben ventilata, posta ad un’altitudine che varia dai 360 ai 430 m s.l.m. e circoscritta dai torrenti Fredane ed Ifalco. Ottime esposizioni (ovest, sud-ovest e sud-est), terreni franco-argillosi e rese di 50 q a ettaro sono il suo biglietto da visita. Seguono, poi, fermentazione e macerazione per una parte in anfora di cocciopesto e per un’altra in acciaio della durata di circa 30 giorni. Terminata la svinatura, si assiste ad un affinamento di ulteriori 18 mesi: parte in botte grande da 25 hl, parte in barile da 500 l e parte in barrique di secondo e terzo passaggio.
Il risultato nel calice è un rosso rubino brillante, con intense note di grafite e sentori di sottobosco, mirtilli e terra bagnata. Bocca carnosa e potente, di notevole profondità tannica con chiusura balsamica e persistente.
Lele Gobbi