Il vino capovolto, opera a due voci dall’impatto profondo
Leggendo la prefazione di Giuseppe Battiston, attore udinese che amo molto, ho avuto subito l’impressione che questo libro mi sarebbe piaciuto. Giuseppe, che il vino lo conosce bene, affronta con chiarezza lo scottante tema del vino omologato, standardizzato, fatto per essere venduto ad una platea cresciuta con i cibi industriali, pieni di aromi e additivi, dove al gusto di un frutto vero è stata sostituita la bevanda all’aroma corrispondente. E ancora di più mi trova in perfetta sintonia quando dice che “ha un valore inestimabile sapere che quel vino può provenire solo e soltanto da quella determinata zona”, ed è assaporandolo che dovresti capirlo. Il “Terrano di una volta” citato da Clara nel film Zoran, il mio nipote scemo, acido e senza mezze misure com’è la terra dove è nato, è emblematico di un mondo e di una cultura dell’alimentazione che hanno subito una profonda trasformazione. È accaduto con il Barolo, con il Brunello, con i vini del sud, sono arrivati gli enologi che hanno “costruito” vini quasi perfetti tecnicamente, ma in molti casi privati delle caratteristiche principali che li rendevano riconoscibili. Erano necessari, certo, bisognava fare vini che non si alterassero nel tempo, senza difetti, che piacessero al maggior numero di persone, ma molti sono andati ben oltre, hanno sconfinato e reinventato il vino, adeguandolo alle esigenze del mercato, all’inseguimento di premi e fama, così molti vini hanno perso gran parte della loro naturalezza, dei loro tratti distintivi, dal nebbiolo alla barbera, dall’aglianico al sangiovese, dal sagrantino al terrano. In contrapposizione a questo, però, si sono sviluppate nuove forme di approccio, nuove culture dove il ritorno al mondo contadino, con l’aggiunta delle conoscenze e delle esperienze acquisite, poteva rappresentare l’alternativa all’omologazione, ma anche, finalmente, un rispetto maggiore per l’ambiente e, di conseguenza per l’uomo. Certo, anche in questo caso, la differenza la fanno le persone, non c’è bisogno di buttarsi nell’ideologia, nella radicalizzazione di principi che non potranno mai essere generalizzabili. Per fare un vino naturale, ovvero senza uso di chimica in vigna e in cantina, senza l’apporto di additivi e correttivi, ci vuole la vigna giusta, il luogo giusto, il clima giusto, gli uomini giusti, ovvero il cosiddetto terroir. E sappiamo bene quanto la diffusione delle aree vitate negli ultimi 30 anni sia stata esagerata, grazie ad una fase in cui il vino stava godendo di grande apprezzamento. Non si può pretendere di fare vino naturale in un ambiente dove l’ecosistema è andato a farsi benedire, o in condizioni inadatte alla coltivazione della vite. L’errore è tutto lì, nelle scelte che si fanno a monte, coltivare la vite in luoghi sbagliati è la stessa cosa che costruire case in località a forte rischio sismico. Non solo, ma per “crescere”, bisogna allargarsi, rosicchiare altra terra, magari eliminare boschi, livellare suoli o generare vere e proprie colline laddove non esistevano. In queste condizioni non è certo possibile ipotizzare di produrre vino con metodi naturali, perché per farlo ci vorrebbe una manodopera enorme, la coltivazione con metodi naturali richiede un’attenzione certosina, non è un caso che i vignaioli naturali gestiscono pochi ettari di vigna, è l’unico modo per seguirla con attenzione, curando pianta per pianta con metodi non invasivi.
Il vino capovolto, che racchiude in sé “La degustazione geosensoriale” di Jacky Rigaux e una serie di scritti raccolti da Sandro Sangiorgi in sei anni di lavoro post “L’invenzione della gioia”, affronta e propone un approccio diverso nella degustazione del vino, puntando a dare maggiore rilevanza alle sensazioni che si percepiscono nel cavo orale, unico vero organo in grado di sfuggire ai trucchi olfattivi dati dall’uso di aromi estranei all’uva originaria, piuttosto che al naso. Una visione che si discosta in modo piuttosto evidente dalla classica analisi sensoriale utilizzata da sommelier, enologi, tecnici e da gran parte di chi scrive e racconta di vino. Questo diverso metodo di lettura del vino apre il dibattito sulla tanto discussa percezione della mineralità, ormai contestata da gran parte degli enologi e studiosi, primo fra tutti Luigi Moio. Infatti la presenza di minerali all’interno del vino non è percepibile all’olfatto, in quanto questi non hanno odore, ma al gusto la situazione è diversa, c’è la sensazione tattile, la sapidità (a volte direi addirittura la salinità) e le componenti aromatiche rappresentano un valore aggiunto soprattutto nella fase retrolfattiva, poiché quello che non poteva arrivare al naso, grazie al transito nel cavo orale acquisisce nuovi parametri che offrono una chiave di lettura più complessa e articolata.
Il rapporto fra l’analisi sensoriale e la degustazione geosensoriale, a mio avviso, racchiude in sé un antico confronto, paragonabile a quello fra conscio e inconscio, fra ciò che è razionalizzabile e ciò che non lo è, fra corpo e anima e via discorrendo, un confronto che genera da sempre conflittualità e incomprensioni nel modo di valutare questa o quella pratica. Basti pensare a quanto ancora oggi, nel campo della medicina, l’omeopatia sia messa in discussione utilizzando un metodo di analisi che non può adattarsi a questa disciplina. Una delle critiche che le vengono mosse è che, a furia di dimezzare la quantità della sostanza utilizzata per produrre il rimedio (quello che in medicina tradizionale è chiamato farmaco), oltre un certo punto non si trovano più molecole di quella sostanza, pertanto l’effetto curativo è nullo. Questo tipo di valutazione non tiene conto del processo di dinamizzazione con cui si preparano i rimedi omeopatici, lo stesso processo che ritroviamo nell’agricoltura biodinamica. Ma non è questo il contesto per approfondire certe tematiche.
Rigaux sottolinea a più riprese l’importanza di un approccio al vino profondamente legato al terroir, è fondamentale, oggi più che mai in questo mondo globalizzato, utilizzare metodi di lavoro in vigna e cantina che ripristino la naturalità del vino, che deve riportare fedelmente nel calice i tratti distintivi del terroir, non la mano dell’enologo, ma “il volto del luogo dove il vino è nato”, ovvero la storia costruita attraverso il dialogo millenario tra l’uomo e la natura, dialogo che può avvenire solo se la natura viene compresa, amata e rispettata. L’industria enologica va in una direzione del tutto diversa, l’utilizzo di additivi, aromi, trucioli di legno, pratiche quali l’osmosi inversa, la micro-ossigenazione, la crio-estrazione ecc., vanno bene per fare vini tecnici, ben fatti, ma in qualche modo si producono vini forzati, poco sinceri.
Anche sul bicchiere utilizzato per le degustazioni Rigaux ha qualcosa da dire, perché se da una parte è indiscutibile che la forma del bicchiere può influenzare le sensazioni del vino, dall’altra l’industria del cristallo ne ha approfittato per spingere ad acquistare un bicchiere diverso per ogni vino, come se per ciascuno di essi un solo tipo di bicchiere potesse esaltarne tutte le qualità organolettiche.
Insomma, l’uomo dovrebbe essere meno interventista, su questo Rigaux non ha dubbi, non a caso cita una frase di Henri Jayer che racchiude molto bene la filosofia del terroir: “Per riuscire a fare un grande vino, bisogna imparare a essere pigri!”.
Dal canto suo Sandro Sangiorgi ci offre uno spaccato di sue piccole perle, che spiegano molto bene come lui sia arrivato a valorizzare il vino naturale, a coglierne tutti gli aspetti positivi, non soltanto in rapporto all’industria del vino, ma proprio perché questo rappresenta il recupero del rapporto sano con la natura. Il fatto che il vitigno, da noi ma non solo, abbia finito per diventare il principale elemento di riconoscibilità, ha portato a uniformare il linguaggio dei vini stessi, spingendo verso modelli precostituiti, dalle selezioni clonali all’uso di lieviti specifici. L’ideale sarebbe, secondo l’autore, che il Sauvignon o il Pinot Noir non sapessero di Sauvignon e Pinot Noir, o meglio, che le loro caratteristiche peculiari affiorassero delicatamente, fondendosi al ben più complesso linguaggio del terroir che il vino dovrebbe esprimere. Nella realtà, basta leggersi qualche guida, per constatare come vengano premiati vini naturali al fianco di vini convenzionali, trascurando completamente il fatto che il vino dovrebbe comunicare sentimenti, e per farlo non può che essere sincero, non artefatto, costruito.
Si può essere o non essere d’accordo con il pensiero che emerge dalla lettura di questo libro, ma è un fatto che oggi si stia rivelando sempre più necessario ritrovare la quadra, ridare al vino la sua giusta collocazione; il business del vino, e ancora più del cibo, non hanno migliorato il nostro rapporto con essi, bensì ne hanno alterato il significato, ci hanno portato su una falsa pista, ben lontana dall’intimo sentimento che questi alimenti dovrebbero suscitare. Vale la pena leggere questi scritti, c’è sempre qualcosa su cui riflettere, meditare, senza prendere posizioni rigide, il messaggio che passa non lo è, al contrario offre l’opportunità di riabbracciare il vino per riscoprirne la poesia, la complessa semplicità (non è una contraddizione), perché solo liberandoci dai preconcetti e mettendo in discussione le nostre certezze, quasi sempre apparenti, possiamo fare un passo avanti e scoprire aspetti che ci erano da sempre sfuggiti, il linguaggio del vino è sempre emozionale, guai se non lo fosse, è questo che lo separa dalle altre bevande.
Roberto Giuliani
Il vino capovolto – La degustazione geosensoriale e altri scritti
Jacky Rigaux – Sandro Sangiorgi
Porthos Edizioni
140 pagine
15 euro