Il sogno realizzato di Damijan Podversic alle pendici del monte Calvario
Oggi vi racconterò una storia che parla di amore per il proprio territorio, passione per il proprio lavoro, rispetto per le leggi della natura, lungimiranza e ampia visione verso il futuro.
Questo racconto però è quasi un ossimoro perché, se facciamo un salto all’ indietro nel tempo, le vicissitudini del territorio che andremo a conoscere, ci parlano invece di uno dei momenti più bui per la storia del secolo appena passato.
Ci troviamo sul monte Calvario, una collina ad ovest di Gorizia, nel nord-est del Friuli Venezia Giulia, sulla sponda destra del fiume Isonzo, che tra il giugno 1915 e l’agosto 1916, durante la Prima Guerra Mondiale, fu teatro di violentissimi scontri tra l’esercito italiano e quello austroungarico.
Dopo l’ingresso dell’Italia nella guerra, il Calvario divenne insieme al Sabotino e al monte San Michele, uno dei tre baluardi della testa di ponte austro-ungarica a difesa della città di Gorizia.
La collina, seppur di altura modesta, venne fortificata con trincee e nidi di mitragliatrice e le pendici vennero disboscate, al fine di non offrire alcun riparo agli attaccanti, e costellate di reticolati e filo spinato.
Ma oggi non sono qui per raccontarvi le dolorose vicissitudini della Prima Guerra Mondiale, ma bensì la storia di un uomo che con la sua famiglia è riuscito a realizzare il suo sogno di diventare viticoltore e far nascere la sua azienda proprio sul monte Calvario: andremo a conoscere Damijan Podversic.
Ad accogliermi per la visita dei vigneti e della cantina, Tamara, la figlia di Damijan, che attualmente affianca il padre in tutte le attività dell’azienda, ma pronta, fra un paio di anni, a prendere in mano la leadership di questa prestigiosa realtà del Collio Goriziano portando in dote la sua freschezza giovanile e nuove idee e progetti.
L’azienda conta su dieci ettari vitati che con i nuovi e recenti impianti arriveranno a una quindicina. I vigneti più importanti, circa sei ettari, sono disposti, a un’altezza che va da 90 a 280 metri sopra il livello del mare, sul monte Calvario, circondati dal bosco e caratterizzati da una Ponca friabile (marna ed arenaria) tipica di queste terre.
I vari impianti sono stati creati valorizzando alcune parti di bosco nelle quali un tempo sorgevano le vigne, andate poi perse e sommerse dalla vegetazione boschiva.
Altri due ettari si trovano poi a Gradisciutta, poco più di mezzo ettaro a San Floriano del Collio, e un ettaro e mezzo a Piedimonte.
In vigna si seguono i principi dell’agricoltura biologica nel massimo rispetto della natura e dei suoi delicati equilibri. Non vengono usati erbicidi, pesticidi, diserbanti ma si fa solo uso di rame, zolfo oltre a tanto olio di gomito. L’obiettivo è quello di ottenere delle uve sane e nella loro massima maturità e se la natura lo consente, si assiste anche all’arrivo sui chicchi della graditissima muffa nobile.
Grande attenzione viene prestata alla maturità del seme che è il vero termometro per valutare il grado di maturazione ottimale delle uve e di conseguenza le tempistiche di vendemmia.
I fondamenti su cui si basa la conduzione della vigna sono quindi principalmente tre: la scelta del terroir, che deve essere ben equilibrato in termini di esposizione, substrato e umidità. Poi è importante capire la varietà che può dare il meglio di sé in quel determinato appezzamento. Infine, come già detto, arrivare ad avere un seme maturo che consenta di portare in cantina uve che siano poi espressione dell’annata una volta che il vino arriva nel bicchiere.
In cantina si punta quindi ad estrarre le ricchezze della buccia e del seme grazie alla lunga fermentazione a contatto con le bucce in tini troncoconici di rovere per un periodo che può arrivare ai 90 giorni, dopo di che i vini riposano in botti da 20 o 30 hl per un periodo di 3 anni, più un ulteriore anno di affinamento in bottiglia.
Da sempre legato alle più antiche consuetudini del territorio, Damijan coltiva i vitigni autoctoni tipici locali come la Ribolla Gialla, la Malvasia Istriana, il Friulano a cui si aggiungono il Pinot Grigio e lo Chardonnay. Per quanto riguarda le tipologie rosse, il Merlot e il Cabernet Sauvignon.
Non solo produzioni monovitigno ma anche due uvaggi, uno bianco a base di Ribolla Gialla, Friulano e Chardonnay (Kaplja) e uno rosso a base di Merlot e Cabernet Sauvignon (Prelit).
La produzione annua è di circa 40mila bottiglie.
La splendida cantina in cui nascono questi grandi vini è nata da un progetto del 2013 in collaborazione con l’architetto Ignazio Vok, (mancato nel 2019), e la prima vinificazione è datata 2019. Siamo dieci metri sottoterra e la struttura si divide principalmente in tre ambienti per l’affinamento, svolto in botti grandi di legno in cui i vini fanno diversi passaggi e vengono travasati sempre in senso antiorario rispetto alle tre stanze a forma ovale .
Ogni stanza è dotata di un sistema di areazione naturale con un sistema a tubi, di cui i più grandi “pescano” l’aria dal bosco, mentre quelli più piccoli sono finalizzati al ricircolo dell’anidride carbonica.
La cantina pur posizionata alla sommità della collina, non ha nessun impatto ambientale negativo in quanto è stata pensata per integrarsi al meglio con la natura circostante.
Nel mio giro in cantina ho avuto il piacere di assaggiare, sotto la sempre attenta e professionale guida di Tamara, un paio di annate (2021 la più “vecchia” arrivata ai tre anni di affinamento) di varie tipologie che riposavano in botte in attesa che giunga il momento dell’imbottigliamento.
Fra questi assaggi anche una botte dove Tamara ha iniziato una serie di sperimentazioni con parte di Friulano macerato oltre che con le bucce anche con i raspi, segno che sta iniziando a portare avanti le sue idee visto che in futuro l’azienda si evolverà e crescerà grazie alle sue decisioni.
Infatti, sembra che presto ci sarà un passaggio di consegne e le scelte aziendali saranno tutte nelle mani di Tamara.
Ma è giusto dire che il passato, presente e, ne siamo certi, anche buona parte del futuro (sicuramente almeno come ottimo consigliere), hanno come protagonista indiscusso il personaggio che oggi andremo a conoscere in una bella chiacchierata e intervista: papà Damijan Podversic.
DIALOGANDO CON DAMIJAN PODVERSIC
Ci racconti la storia vitivinicola della tua famiglia e come è nata invece poi la tua avventura di vignaiolo?
Gli inizi delle attività della famiglia Podversic la si può attribuire a mio nonno, uno dei figli di una numerosa famiglia che si sposò e visse a San Floriano del Collio.
Sono anni difficili a cavallo tra le due guerre e il problema principale al tempo era quello di sfamare la famiglia grazie a piccoli appezzamenti di terra ad uso agricolo per la produzione di frutta, verdura e un po’ di vigna da cui si ricavavano alcuni ettolitri di vino che veniva venduto sfuso.
Visto il periodo difficile, una Seconda guerra mondiale che aveva diviso i confini e creato poca prosperità, nonno Ermenegildo, detto Gildo, decise di aprire un’osteria a Gorizia all’interno della quale poter vendere i propri prodotti e vini.
Il primo figlio di Gildo, Bruno ha avuto la possibilità di studiare, il secondo figlio Antonio fu quello a cui andò la totalità dei terreni agricoli, pur non avendo la passione per questa attività, mentre mio padre Francesco, continuò la gestione dell’osteria, di cui ebbe la licenza in eredità, senza però avere in dote nessun appezzamento di terra.
Negli anni, l’attività di vinificazione incrementò e mio padre decise di creare una cantina proprio dietro all’osteria dove poter produrre i vini da vendere all’interno del locale. Successivamente, dopo il diploma di enotecnico, io entrai a far parte dell’attività di famiglia, con idee innovative, frutto degli studi appena portati a termine.
Questo fu un iniziale momento di attrito con mio padre, più conservatore e legato alla tradizione. A questo riguardo è significativo ricordare che per produrre la prima bottiglia nel 1998, preso atto delle idee diverse rispetto a mio padre, dovetti trovare degli spazi in affitto a Dolegna del Collio visto che non mi permise di utilizzare la cantina dietro l’osteria di Gorizia.
Da lì in poi la mia attività di vinificazione continuò nella cantina di Dolegna del Collio fino a quando finalmente non sono riuscito a realizzare la mia cantina sul monte Calvario e finalmente riuscire a lavorare nel luogo che avevo sempre sognato.
I tuoi vini nascono dopo lunghe macerazioni in cantina, diventa quindi fondamentale la qualità delle uve che si producono in vigna. Ma se nelle annate ottime non serve nessun particolare accorgimento, quanto è difficile il tuo lavoro nelle annate complicate quando le uve in vigna sono soggette ai voleri, alle volte non sempre benevoli, di madre natura?
In realtà non cambia molto perché alla base c’è un concetto di lavoro che in vendemmia ci porta ad osservare il grappolo dal punto di vista dei colori che presenta e che di conseguenza viene selezionato in modo da portare in cantina sempre la massima perfezione che quella annata ci consente.
Le vendemmie posso essere più lente o più veloci a seconda se avvengono con le uve frollate sulla pianta oppure raccolte integre, mentre in cantina non cambia molto perché le regole di vinificazione ed affinamento restano uguali. La differenza in vendemmia è che per raccogliere dieci quintali di uva con la botrite nobile stai un giorno in dieci persone, con un’annata “semplice” senza botrite stai in dieci un’ora.
Quindi la selezione, a seconda della diversa annata, viene fatta in vigna mentre quando entrano le uve in cantina le regole sono sempre uguali.
Come appena detto, I tuoi vini nascono dopo lunghe macerazioni che possono arrivare anche ai 90 giorni, una lunga maturazione in botte di minimo 3 anni e un affinamento di 1 anno in bottiglia. Vini ricchi, complessi e di carattere ma a cui non manca la fondamentale componente acida e salina. È sbagliato dire che a un primo impatto i tuoi sono vini che possono dare l’impressione di essere adatti solo ad esperti degustatori, ma alla fine invece riescono a conquistare anche quegli appassionati neofiti o comunque meno avvezzi ai segreti della degustazione e che questa qualità è tipica solo dei grandi vini?
La comunicazione che viene fatta da qualche mio collega viticoltore non è a mio parere corretta. Oggi viene usata tanto la psicologia e la filosofia per convincere il palato dei consumatori ad accettare anche cose che hanno dei problemi o qualche difetto.
Io mi ritengo un professionista nel mio lavoro e all’interno del vino non accetto i difetti. Per me il vino è formato da quattro elementi: la salinità, la croccantezza del frutto, le basi di acidità e il ritmo dell’annata.
Noi stessi veniamo alle volte messi in discussione perché non abbiamo quei difetti, che alle volte possono diventare col tempo anche un pregio, vedi il marsala siciliano che è un vino in ossidazione, vedi i vini del Jurà, la Vernaccia di Oristano, tutti vini fatte su fiorette senza fare colmature in vinificazione.
Per quanto riguarda i vini macerati a contatto sulle bucce, noi non abbiamo inventato niente perché il vino ha 8000 anni di storia, e un vino che sapeva di aceto in quelli anni sa di aceto anche adesso, un vino che puzzava di cantina sporca per le muffe, puzza anche oggi. Noi siamo molto attenti in tutte le fasi di vinificazione e affinamento e all’interno della cantina usiamo solo un po’ di solfiti che proteggono il processo di trasformazione dall’uva al vino.
Oggi la gente che beve vino è stata abituata ad una standardizzazione del gusto ma questo deriva, in senso più ampio, da tutta la standardizzazione dell’agroalimentare.
Oggi il latte non è più bianco, è giallo. Oggi se compri un formaggio fresco al supermercato non ha più sapore, se vai a prendere invece un formaggio in malga dal contadino questo ha un suo tipico gusto. Le merendine prodotte dalle grandi aziende multinazionali, che poi i bambini mangiano a scuola, hanno tutte lo stesso sapore, mentre lo strudel che preparava la nonna non avrebbe mai avuto lo stesso sapore perché deriverebbe da una mela maturata differentemente, con cotture sempre diverse.
All’interno del mondo agroalimentare oggi purtroppo il gusto è standardizzato e questo si riflette anche nel vino che sembra più simile al mondo della coca-cola visto che mancano tutte quelle componenti legate all’annata, al varietale, al terroir che un vino dovrebbe sempre avere.
Qualche volta mi son trovato a scontrarmi con persone abituate a un certo tipo di non-gusto, che hanno trovato nei miei vini una sorta di muro per un qualcosa a cui non erano abituate, ma questo non è un problema mio ma piuttosto generazionale per il momento che stiamo vivendo.
Torno a ribadire che oggi il grande problema dell’uomo è l’agroalimentare, non il cambiamento climatico.
Ma cosa ci vuole per fare un grande vino? Quali sono le componenti fondamentali?
Questa è una ricetta che è vecchia 8000 anni ed è sempre uguale.
Per fare un grande vino serve in primis una grande terra dove durante il periodo estivo non sia necessaria irrigazione e che trattenga l’acqua adatta alla coltivazione del frutto.
La seconda cosa che serve per fare un grande vino è legata alla specie: la varietà viene legata alla regola del parallelo, per esempio piantare Chardonnay in Sicilia è altrettanto stupido come piantare Nerello Mascalese in Borgogna.
Siccome noi in Italia siamo professionisti a guardare gli orti dei vicini, ne abbiamo combinate di cotte e di crude e abbiamo piantato Pinot Nero in Toscana, Chardonnay in Friuli, piantato tipologie che non appartengono al nostro parallelo. In realtà non ci rendiamo conto che con il Sangiovese facciamo dei vini superiori al Pinot Nero perché è più adatto al nostro parallelo.
La terza cosa importante, che è quella più difficile nel mio lavoro, è la maturazione fenolica che ti porta a lavorare 364 giorni in funzione di quel fatidico giorno che è la vendemmia.
La pianta, ricordiamocelo, non sa che dovremo poi fare vino, lei opera per proteggere i semi che sono all’interno dell’acino, li matura, usa fermentazioni brevissime di trasformazione degli zuccheri in alcol che iniziano sul grappolo prima che partono i batteri e le fermentazioni batteriche che consumano tutto l’involucro per permettere la successiva semina. Se poi attecchisce uno delle centinaia di migliaia di semi che ha gettato per terra, la natura ha fatto bene il suo lavoro.
Invece noi dobbiamo cercare di produrre questo alimento, che io definisco dell’anima, con l’uva e dobbiamo andare a farlo in presemina.
Solo un anno su dieci la maturazione fenolica è al 100% poi ci sono le varie sfaccettature derivate dalle caratteristiche dell’annata.
Sei stato gratificato nel 2019 dal premio “Nonino Risit D’Aur Barbatella ‘Oro 2019” per aver dato impulso alla coltivazione della Ribolla Gialla e per aver avviato l’iter per il recupero di terreni vocati all’agricoltura abbandonati dal 1940 sul Monte Calvario a Gorizia. Si può dire che questo premio testimoni il grande amore per il tuo territorio e che la Ribolla Gialla sia la tua figlia prediletta?
In realtà non sono l’unico che ha sposato in toto la Ribolla Gialla, vedi ad esempio i colleghi di Oslavia, con in testa Josko Gravner, che da tempo stanno operando per dare il giusto valore a questo vitigno.
In realtà è uno dei vitigni più difficili da coltivare nel nostro territorio perché si prende trenta giorni in più rispetto a qualsiasi altro tipo di uva per fare la maturazione fenolica. Parte per prima e viene vendemmiata per ultima. È un vitigno che io non pianterei dappertutto perché pretende terreni poveri posizionati molto in alto e soleggiati.
Le nostre colline, che vanno dai 90 fino ai 280 metri sul livello del mare, sono sempre state adatte a tre tipologie di vitigno che hanno trovato il loro habitat ideale a seconda dell’altitudine e dell’esposizione. Da quando è nata l’azienda, non abbiamo puntato solo sulla Ribolla Gialla, ma anche sul Friulano, per me sempre Tocai, e sulla Malvasia Istriana. Il Friuli considerato il ”pisciatoio” d’Italia, ha come gradita opzione sulle tipologie bianche di andare in maturazione fenolica in compagnia della botrite nobile. I rossi invece sono più adatti per altre zone come, ad esempio, il Piemonte dove hanno meno piovosità.
Quindi prendere il premio sulla Ribolla Gialla fa piacere perché ci siamo impegnati molto, le vogliamo tanto bene, ma il nostro grande lavoro è stato quello di recuperare i vecchi vigneti sul monte Calvario, abbandonati per tanto tempo dai nostri avi, per colpa delle disgrazie del territorio.
Ho sudato non cento ma mille camicie per recuperare un fazzoletto di terra su questo colle, perché oggi fare un vigneto è quasi più complicato che fare un grattacielo a Milano a causa di tutte le leggi ambientali che ci sono ma che oggi sono da rivedere, visto che sono state fatte negli anni 50-60 per ovviare alle costruzioni abusive e non autorizzate sulle coste della Sardegna.
Oggi fare un vigneto è uno sforzo allucinante, devi avere una concessione edilizia, integrata da documentazione di agronomi, forestali, geologi, ma fare un vigneto non è come fare un muro con malta e mattoni, quando muovi dei terreni non sai mai esattamente se ti vengono cinque o sette terrazzine. Tu puoi fare tutti i rilievi che vuoi ma quando muovi un cubo di terra fermo da cento anni incontri delle problematiche che fanno diventare inutili e obsolete tutte le carte preparate a tavolino.
La tua prestigiosa linea produttiva in commercio ha fra le sue fila anche due selezioni di Ribolla Gialla annate 2005 e 2010. Ci racconti qualcosa di questi due vini e in che cosa si differenziano dalla Ribolla Gialla, diciamo classica, che produci normalmente?
Noi nella nostra storia aziendale abbiamo fatto tre riserve anche se in realtà potevano essercene quattro, ma visti i grossi debiti fatti per la costruzione della nuova cantina, l’annata 2014 è stata messa sul mercato con il percorso normale di affinamento perché ci servivano finanze per non incorrere in problemi che bloccassero la normale attività. Nel mio percorso di viticoltore ho firmato quindi quattro annate di riserva ma sono uscite solo la 2005, la 2010 e uscirà fra qualche anno la 2017.
La riserva è legata alla maturazione fenolica al 100% delle uve con la presenza in pre-vendemmia della botrite nobile. Fanno un percorso uguale alle altre uve, con vendemmie però tardive “del ultimo giorno” in vigna, mentre in cantina c’è lo svezzamento in botte per sei anni e poi altri quattro in bottiglia. Le riserve escono quindi in commercio dopo dieci anni.
Questi vini, per chi li assaggia adesso, presentano un carattere legato prevalentemente al mondo del terziario. La Ribolla Gialla è un vitigno non aromatico ma qui ritrovi certi aromi legati all’ossidazione della buccia.
Nel 2014 sarebbe potuta andare in riserva anche la Malvasia mentre potenzialmente anche il 2023 sarebbe un’annata da riserva, ma abbiamo prodotto veramente poco. Quando non fai commercio di vino, non compri le uve, la produzione è sempre quella e può risentire, in termini di quantità, dallo sviluppo dell’annata. Bisogna ricordare che lasciare fermi dieci anni i vini, prima di metterli in commercio, va incidere ovviamente sul discorso economico che per una realtà famigliare non è secondario.
Le riserve escono sul mercato a un prezzo importante . La Ribolla Gialla 2017 uscirà a 330 euro, ma non è un prezzo che mira a fare utili perché è già stato, in un certo senso, dimenticato dal punto di vista del bilancio aziendale. È un vino che produco perché voglio berlo principalmente con i miei amici, un regalo che voglio fare perché frutto di sudore mio, della mia famiglia, dei miei dipendenti, di chi ha vendemmiato chicco per chicco facendo un’accurata selezione e chi lo vorrà avere in esclusiva per togliersi un suo capriccio, si troverà questo prezzo di mercato.
Se il vino mi restasse in cantina per trent’anni non sarebbe un problema perché come detto non mi serve per fare bilancio ma rappresenta una faccenda di cuore.
Il vino nella sua essenza deve alimentare l’anima, non il corpo, perché per assurdo ne disturba il normale processo dei suoi organi. Noi abbiamo bisogno di bere acqua, quando decidi di bere vino devi avere delle emozioni e provare soddisfazione e spiritualità in quel determinato momento della vita.
Se dovessi andare dietro alle regole della viticoltura moderna io ritornerei ad abbandonare queste colline perché mi converrebbe andare a produrre uve su terreni meccanizzabili e meno impegnativi. Io invece da queste colline devo andare a ottenere quello che gli altri non posso prendere. Posso dire che rispetto alla viticoltura moderna e meccanizzata, quella che porta i vini negli scaffali del supermercato, quello che faccio io e altri colleghi, è un mestiere diverso, deve esprimere l’essenza del territorio, una sorta di arte estrema che magari sarà capita fra cinquant’anni.
“Non possiamo produrre vini banali su queste terre, perché avremmo già perso, queste sono terre per grandi vini“.
Colgo l’occasione di questa tua affermazione per chiederti se il Collio in generale sta seguendo questa tua filosofia senza lasciarsi tentare dal produrre vini più commerciali, scelta che in questo caso potrebbe essere deleteria per la stessa esistenza di questo territorio perché porta alla omologazione dei prodotti che poi andando a confrontarsi con il mercato globale ed aziende da milioni di bottiglie prodotte, non avrebbe le armi con cui competere.
I miei colleghi non sono criticabili perché a casa sua ognuno fa quello che vuole. Io però, con i fatti, sto dimostrando di pensarla in un’altra maniera.
Pur essendo alle soglie di un cambio generazionale, mia figlia Tamara non ha fatto il normale percorso di studi in enologia perché non volevo seguisse la mia strada e facesse anche i miei errori. Io quando ho fatto il percorso di studi in ramo enologico, anche se solo a livello professionale, ero in un costante limbo di paura, correvo spesso dal professore a chiedergli cosa dovessi andare a mettere nel vino perché questo diventasse buono. E il professore, che non aveva mai fatto vino in vita sua, mi dava delle risposte che erano quelle scritte sui libri ma non mi menzionava mai la ricetta vera, quella più semplice che è vecchia 8000 anni.
Di base il contadino è una persona molto intelligente, ma ha un grande difetto, si fa circuire da quelli che pensano di essere più intelligenti e tende ad ascoltare chi ne sa meno di lui, questo per un concetto di paura. Il punto è che nell’istruzione, come nella vita, devi avere delle certezze e non delle paure. Ai miei figli per prima cosa ho detto che, come obiettivo, dovevano andare ad imparare le lingue straniere perché nel loro futuro avrebbero dovuto interagire a livello internazionale, infatti oggi ne conoscono 4-5 di quelle più usate al mondo.
Io invece da giovane ho iniziato subito a lavorare e a piantare vigne e non ho fatto un percorso approfondito di studi e altre esperienze, e alla fine mi manca la conoscenza delle lingue e questo è un limite quando vai a confrontarti nei mercati esteri.
Per quanto riguarda quello ho voluto e pensato di trasmettere ai miei figli, per prima cosa gli ho detto che gli volevo raccontare tutti i miei errori visto che ne ho combinate di cotte e di crude nel mio percorso. Uno fra i tanti quando, agli inizi del mio lavoro da viticoltore, non ascoltai i consigli di mio padre che in vendemmia mi diceva di non buttare gli acini attaccati dalla botrite nobile, mentre io testardo li ritenevo, al tempo, non adatti per fare buon vino in quanto ritenuti solo marciume. E mi son voluti poi vent’anni per capire che mio padre aveva ragione.
Sono importanti i chilometri di esperienze che ti fai nel percorso della tua vita, e la fortuna che hai di incontrare delle persone che ti trasmettono le loro esperienze e ti danno dei consigli, permettendoti di fare meno errori.
Io a mia figlia Tamara ho detto di fare qualche anno di affiancamento in azienda con me in modo che potesse iniziare a capire come muoversi in vigna e in cantina e poi le ho consigliato di farsi un’esperienza all’estero, in un’altra azienda che avesse la stessa nostra filosofia. Le ho sconsigliato il Nuovo Mondo e la sua scelta è ricaduta nella Borgogna francese dove per un anno ha fatto una bellissima ed istruttiva esperienza di vita e di lavoro.
Adesso è già molto preparata e posso annunciare che il 2026 sarà la mia ultima esperienza da leader e dal 2027 tutte le decisioni più importanti saranno di sua responsabilità.
Sbaglio a dire che uno dei tuoi principali punti di riferimento è stato Josko Gravner?
Per darti questa risposta devo raccontarti un po’ di storia e fare un salto all’indietro nel tempo.
Siamo negli anni ‘70 e fra i personaggi più quotati nel mondo del vino c’era Mario Soldati che aveva molti rapporti coi ricchi, conti, e commercianti. Poi dopo di lui arrivò Luigi Veronelli che si faceva sì scarrozzare dai ricchi in giro per promuovere il mercato enogastronomico delle loro aziende, ma riservò una buona parte del suo tempo e del suo interesse ai piccoli contadini, trasmettendogli la forza mentale e la consapevolezza che potevano anche loro essere in grado di creare un loro marchio e poter anche vendere in giro per il mondo i loro prodotti.
E lì nascono Schiopetto, Gianfranco Gallo, Jermann, Gravner, Nicola Manferrari, delle teste illuminate che cercano di portare a livello mondiale il loro pensiero anche se poi prenderanno ognuno delle strade differenti.
Io ho avuto la fortuna di incontrare questi personaggi e di sognare con i loro occhi e così in sella al mio motorino, assieme ad altri coetanei, correvo prima da Josko Gravner, poi da Manferrari e Schiopetto e tutti mi accoglievano permettendomi di ascoltare e imparare molte cose dal loro grande sapere ed esperienza.
La mia Borgogna di apprendistato è stata quindi questa serie di esperienze che mi hanno spostato solo di pochi chilometri da casa. Ognuno di questi personaggi mi ha insegnato qualcosa, chi come riconoscere i difetti del vino, chi insegnandomi la filosofia che c’è dietro una bottiglia, chi il commercio e l’integrità del prodotto friulano. Insomma, un mix di insegnamenti che sono stati fondamentali per la mia crescita professionale. E per questo sarò sempre grato a tutti.
Poi alla fine ho sposato in toto la filosofia che viene seguita da Josko Gravner in quello che è il suo modo di fare e concepire il vino, ma torno a ripetere che il vino ha 8000 anni di storia e nessuno ha inventato niente.
Prendo a riferimento una citazione di Aristotele riportata nel tuo sito online: “La Natura non fa nulla di inutile”. Ma in questo periodo storico dove la natura è sfruttata e maltrattata da un essere umano che non capisce quanto sia rischioso il suo operato maldestro, quali sono le risposte di autodifesa di madre natura e che cambiamenti hai visto esserci in vigna a causa dei mutamenti climatici in corso? Che futuro vedi all’orizzonte per le nuove generazioni?
Come già detto prima, tutto è legato al concetto dell’agroalimentare.
Nel mondo di oggi tutti dobbiamo avere un posto di lavoro perché dobbiamo possedere la macchina, il cellulare, l’energia, tutte le comodità e via dicendo.
I miei genitori avevano vite diverse, mio padre andava al lavoro, mia madre restava a casa e poi il pomeriggio entrambi andavano a lavorare nell’orto. Il lavoro era legato a un concetto di sopravvivenza. I tempi moderni non ci permettono di vivere come allora, l’uomo possiede tantissime cose che gli permetterebbero di vivere meglio e invece vive peggio.
Oggi purtroppo l’agricoltura è strutturata in modo da far scendere i prezzi e far arrivare sugli scaffali del supermercato della merce a basso costo. Ma tu mi devi dire come possono certi alimenti costare così poco. Devi abbassare i costi di produzione e aumentare le quantità e per far questo devi avvelenare la terra.
Ma il contadino non capisce che quando avvelena la terra per produrre quantità e guadagnare di più, avvelena anche suo figlio perché sotto la terra c’è la falda da dove un giorno berrà l’acqua.
Quindi mi chiedo: cosa ti fai dei soldi che ti permettono magari di girare in Ferrari se poi tuo figlio beve acqua avvelenata?
Io ho avuto la fortuna che mia moglie, oltre a me, ha sposato anche i miei sogni, standomi accanto, ma oggi è impensabile dire a una coppia di Milano che a lavorare ci vada solo l’uomo, con la donna che resti a casa ad accudire i figli e magari dedicarsi anche a un orto e allevare anche un maialino per fare le salsicce per l’inverno. Utopia. I tempi sono cambiati.
Per me quindi, oggi il grande problema è che vivere solo per la sopravvivenza non è più possibile, o arriva una guerra catastrofica, ma speriamo di no, e riparte tutto da zero, o non so sinceramente che futuro ci verrà riservato se l’abbondanza di tutto alla fine ci crea problemi e non ci fa vivere veramente bene.
Per quanto riguarda il cambiamento climatico io penso che la natura abbia cicli di 150 anni e adesso si sta ripresentando una situazione simile appunto a un secolo e mezzo fa. A mio avviso vengono scaricati tutti i problemi del genere umano sui discorsi inerenti al cambiamento climatico ma non viene detto però che oggi abbiamo gravi malattie legate appunto all’agroalimentare. Intolleranze, malattie moderne legate all’avvelenamento a cui siamo soggetti alimentandoci con prodotti a basso costo, sono il risultato del fatto che ci nutriamo spesso con cibo spazzatura.
Dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Questa è una dichiarazione fra le più comuni che si sentono dire, che sembra banale ma invece nasconde quasi sempre una grande verità. Nel tuo caso specifico, quanto è stata importante tua moglie Elena per quello che è stato il tuo percorso di viticoltore e produttore di vino?
Importantissima, anzi fondamentale al 100%. Quando ci siamo incontrati, i miei progetti non erano i suoi progetti per la vita. Io ho avuto una grandissima fortuna perché non solo ho trovato una grande donna, grande moglie e mamma, ma anche un’ottima e professionale compagna di viaggio nel percorso di crescita aziendale perché in realtà lei ha sposato non solo me ma anche i miei sogni e senza il suo contributo non sarei riuscito a realizzare quello che ho fatto.
Lasciando fuori concorso Josko Gravner che sarebbe troppo scontato da nominare per te, c’è qualche vino o produttore che ti emoziona in modo particolare?
Io bevo, assaggio ogni anno circa centoventi vini di altri produttori. Di emozionanti però ce ne sono veramente pochi di cui posso ricordarmi. Io sono molto severo con me stesso e quindi lo sono anche con gli altri. Dirti però dei nomi adesso non ha senso.
Quanto è cambiato Damijan Podversic dalla sua prima annata di vignaiolo nel 1998 e quanto pensi possa ancora evolversi nel futuro con nuovi progetti ed eventuali sogni nel cassetto?
Personalmente ho realizzato tutti i sogni, e vedere mia figlia che adesso sogna ad occhi aperti, come facevo io, è per me è una grossa soddisfazione ed è un po’ la chiusura di un cerchio.
Come progetto abbiamo in cantiere la realizzazione di un’altra piccola cantina dove stoccheremo una certa quantità di bottiglie di vino, circa 4-5mila all’anno, per una trentina di anni, delle prossime vendemmie che seguirà Tamara.
Io farò un passo indietro ma ovviamente non posso andare via dall’azienda perché le cose in ballo sono molte ed impegnative e quindi io e mia moglie daremo il nostro contributo per dare una continuità al lavoro fatto fino qua.
Non potrei chiedere di più se penso che abbiamo messo in piedi un’azienda comprando i vigneti abbandonati sul monte Calvario che erano di proprietà di 22 contadini privati. Mettere d’accordo tutti e trovare un accordo è stata un’autentica impresa.
Sono stato bravo e fortunato a fare quello che avevo sognato di fare da piccolo, capita a pochi di sognare di fare l’astronauta, costruirsi la navicella, trovare una brava coi pilota, partire per il viaggio e riuscire anche a tornare.
Adesso io sono nella fase dell’atterraggio, sto tornando a casa ma è stato un bellissimo viaggio.
Stefano Cergolj