Gianni Terzuoli e Don Andrea Pintus
La settimana scorsa, su questa rubrica, l’ottimo Luciano Pignataro si interrogava sul significato da dare all’espressione “vino elegante”. Per parte mia voglio rilanciare e chiedere: che vuol dire, invece, “vino territoriale”? In teoria è facile rispondere: dicesi territoriale il vino che rispecchia il territorio in cui nasce e viceversa. Ma in pratica? In pratica credo sia difficilissimo: per farlo con serietà di argomenti è necessario possedere una conoscenza così specifica e particolare di suoli, luoghi, climi, odori, essenze, usi, tecniche e così via possibile solo a chi (o quasi) nelle zone interessate ci vive ed è perciò capace di cogliere sfumature e sentori “ambientali” altrimenti non individuabili. Ebbene, di recente ho avuto l’opportunità di assaggiare dei vini che ho davvero trovato territoriali. E lo dico a ragion veduta, in quanto prodotti più o meno a casa mia, nelle Crete Senesi.
Si tratta di quelli dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, il grandioso complesso monastico fondata nel 1317 dal beato Bernardo Tolomei e casa madre degli Olivetani, congregazione obbediente alla regola di San Benedetto: “Ora, labora et lege”. Regola che i monaci osservano alla lettera. Sono infatti monaci-agricoltori e pertanto, da sempre, anche vignaioli. Perdersi qui e ora nell’inesauribile aneddotica su questo luogo straordinario, dall’atmosfera profondamente mistica, rischierebbe però di distogliere l’attenzione dal vino in sè. Anche se per comprenderlo a fondo occorre anche sapere che, come forse da nessun’altra parte, nella grande fattoria olivetana la compenetrazione tra agricoltura, missione, tradizione, stile di vita è assoluta. E in nessun caso se ne potrebbe prescinderne. “Il rapporto lavoro-liturgia è per noi vitale”, spiegano l’economo generale don Antonio e in responsabile della produzione vinicola don Andrea. “Per restare al comparto vitivinicolo, basti dire che ogni operazione in vigna e in cantina, dall’inizio della vendemmia all’imbottigliamento, fa sempre riferimento a precise ricorrenze liturgiche”. Molto più recente, circa vent’anni fa, è invece la messa a dimora del vigneto specializzato per la produzione di vino destinato al mercato: cinque ettari e mezzo in un unico corpo, su un suolo in prevalenza argilloso esposto ad est, sul versante della collina che guarda verso Chiusure e San Giovanni d’Asso, nel cuore della grande tenuta facente capo all’Abbazia, come racconta l’enologo Gianni Terzuoli (uno che, tanto per rendere l’idea del senso della continuità insita nel modello olivetano, proviene da una famiglia a servizio dell’Abbazia da sette generazioni). Varietà coltivate: Vermentino, Sangiovese, Merlot, Cabernet sauvignon. Ancora più recente la svolta qualitativa, con l’abbandono della cantina storica nelle viscere del monastero (ora trasformata in affascinante luogo di vendita diretta e di degustazione, nonché tappa obbligata della visita al grande complesso), la realizzazione della nuova, il passaggio al biologico (“il biodinamico non è invece di nostro interesse”, specificano i monaci), e un restyling enologico generale i cui frutti si sentono, eccome, nel bicchiere. La prima di queste evidenze è la coerenza stilistica tra i vari vini. Il che non guasta, vista anche la vastità della produzione: ben otto etichette, cui si aggiungono liquori, distillati e amari, tra i quali la tradizionale Flora a base di erbe. La seconda evidenza è appunto la territorialità. Ho trovato corrispondenza tra le caratteristiche intrinseche dei vini e le aspettative dettate dalla conoscenza dei luoghi di produzione: la sensazione di calore e di compattezza, la mancanza di fronzoli e di concessioni alle mode commerciali, insomma una personalità marcata ma non per questo ostica, o tecnicamente inadeguata, o compiacente. Schiettezza è forse l’espressione più giusta.
Ecco una carrellata degli assaggi che più ci hanno convinto:
Facendo la somma delle produzioni dei vini descritti sopra e di quelli di cui parleremo una prossima volta (il vivace Rosatum di Sangiovese vinificato in bianco, il Coenobium Grance Senesi DOC a taglio bordolese, il cangiante Monaco Rosso e il singolare Vinsanto), si arriva a circa 50mila bottiglie prodotte. Ora, se dicessimo che i vini di Monte Oliveto valgono da soli la visita faremmo un grave torto tanto all’abbacinante bellezza artistica, architettonica e paesaggistica del luogo, quanto al messaggio più ampiamente culturale e spirituale di cui esso è portatore. Ma faremmo anche un torto ai vini dicendo che essi rappresentano solo un quid pluris della visita, nemmeno fossero una sorta di souvenir. Non a caso, su prenotazione, si possono fare anche degustazioni guidate. Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Ed è pure la meno prevedibile: tranne qualche rara eccezione nei ristoranti in zona, infatti, attualmente l’unico modo per procurarsi i vini dell’Abbazia è andarci di persona (cosa di cui, come detto, vale assai la pena). Oppure comprarserli sull’e-commerce della congregazione. Più territoriali di così… Amen.
Stefano Tesi
Giornalista cresciuto con Montanelli al giornale, si occupa da sempre di agricoltura, agroalimentare enogastronomia e viaggi. Ha lavorato tra gli altri per Cucina Italiana, Meridiani del gusto, Viaggi & Sapori, Bell’Italia. Collabora per Civiltà del Bere, Dove, Corriere Vinicolo, Guida Ristoranti dell’Espresso, oltre a curare la sua blog-zine Alta fedeltà. È assaggiatore professionista di olio extravergine. Fa parte del gruppo Garantito Igp.
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Sommelier e master sul servizio vino e relazione col commensale, ha tenuto alcuni corsi in area territoriale del Pavese di approccio/divulgazion (...)
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