I racconti di Alda: Ed era sempre lunedì
Le montagne ci venivano incontro con le cime ancora orlate di neve, gli abeti alti, slanciati e, intorno, il lago di Lecco così brillante nel sole primaverile, popolato qua e là di piccole imbarcazioni. La roccia sembrava vicina, quasi da poterla toccare, viva di un mondo proprio, inaccessibile e noi, minuscoli, con le nostre paure, le nostre ferite, le umane miserie e i nostri tanti se avessi, se potessi, se volessi. La roccia non aveva ferite, non aveva speranze o delusioni. Era lì, indifferente e bellissima.
L’uomo che sedeva accanto a me era un estraneo, conosciuto per caso ad uno dei tanti angoli e momenti della vita, innocuo proprio perché estraneo a me come io lo ero a lui. Mi accompagnava ed era semplice sopportarci, tentare una qualsiasi conversazione o rimanere in silenzio, non ci aspettavamo niente l’uno dall’altro. Lui aveva una meta, io un’altra. La sua presenza non disturbava i miei pensieri, le impressioni, le immagini della strada, delle montagne e di quanto mi aspettava al di là di quello che mi circondava e di quello cui stavo andando incontro. Qualcosa breve e concentrato tutto nell’inizio e nella fine di quel lunedì. Un futuro di poche ore, provvisorio e incerto come il tempo in cui vivevamo, ancora offesi dalla guerra, un tempo inquietante, imprevedibile nelle sue contraddizioni, tuttavia frenetico nel desiderio di ricostruire, dalle rovine, un mondo migliore. Mai la vita mi era sembrata tanto bella e sospesa come in quei momenti. In me tutto si rifletteva come in uno specchio lucidato a cera.
Arrivammo a Sondrio alle diciassette. Il sole era ancora alto, l’aria pulita, fresca, gonfia di promesse. Cos’era che cantava in me? L’acqua del lago immobile oltre le mie spalle, la mano della vita così avida e così terribilmente bella? I sogni, le diverse realtà, le sterili sorgenti dei desideri, delle speranze? Era la notte che mi aspettava, la città che avevo lasciato, il mattino già lontano e già di nuovo vicino, il piccolo paese che mi attendeva tra una fitta rete di pini, di silenzi e di odori alla fine di una lunga e stretta salita? O quel qualcosa di sconosciuto che mi aspettava al di là di una curva, quel qualcosa di cui conoscevo l’importanza, l’attesa, ma non la pena, così profonda, che neppure la più ingegnosa fantasia poteva immaginare? Come saperlo prima di essere lì? A chi chiederlo? Ecco perché io, che da settimane non fumavo, accesi una sigaretta. Ecco perché troppo piccolo e insignificante mi sembrò il pacchetto di dolci che portavo con me, ecco perché insieme all’ansia e alla gioia nasceva in me la paura dell’incerto.
La macchina saliva. Lassù, alto tra le piccole case del villaggio, chiuso in una cornice di monti, con le sue notti e i suoi giorni interminabili, il suo mondo di dolore e di speranza, c’era il sanatorio. Una parola come tante altre, come sedia, bicchiere, vita, morte. Scrissi tutte queste parole sul vetro appannato della macchina, all’ultima eravamo arrivati allora, prima di scendere, ricominciai daccapo, mi fermai a vi… Non feci in tempo a finire, uscii veloce dall’auto e in un attimo fui davanti a quella porta. Sentii la macchina ripartire e fui sola in un gran silenzio. Una donna in camice bianco si affacciò, fu a lei che chiesi di Franca e mentre aspettavo con il cuore in gola, all’improvviso, senza quasi rendermene conto, lei si aggrappò con le braccia al mio collo e la tensione si allentò di colpo. La mia amata amica Franca mi abbracciava e io sentivo la sua gioia scivolare in me così rapidamente e dolcemente che ne fui atterrita. Era meraviglioso e terribile, con così poco, dare tanto. Meraviglioso e terribile essere causa di felicità. Faceva quasi male, ma io mi sentivo viva e finalmente capivo il senso della mia esistenza.
Feci le scale con leggerezza. La verità, le cose grandi, mi avevano resa lieve e fragile. Conobbi la sua camera, la compagna che divideva con lei le ore di attesa e di speranza. Conobbi le ore di sdraio e lo spettacolo delle montagne nella sera che calava, la monotonia di un tempo tanto più lungo che in qualsiasi altro posto. Lì era sempre lunedì. Niente finiva. Tutto ricominciava, spogliarsi, vestirsi, mangiare, dormire, farsi visitare e aspettare, aspettare come se fosse sempre lo stesso giorno. Anche quando qualcuno moriva non finiva, rimaneva il suo spazzolino da denti, la sua ombra, la sua agonia e la minaccia continua della sua inutile speranza. Mi vergognavo, io così piena di salute e di giovinezza, io soltanto di passaggio.