Una storia d’amore nella maremma toscana: Julia e Georg e l’avventura di Monteverro
Nonostante i tanti anni trascorsi nel mondo del vino e avendo imparato a fare gli opportuni distinguo, non nego che a volte mi capiti ancora di avere un atteggiamento prevenuto, di sentirmi diffidente, dubbioso in certi contesti dove tutto può apparire come un dejà vu, come qualcosa di prevedibile e allineato a un “sistema” prestabilito che rischia di sottrarre al vino la sua naturale predisposizione all’anticonformismo.
Per fortuna questi momenti di grande perplessità non mi hanno mai spinto a tirare anticipatamente il freno a mano, al contrario sono sempre ben felice di essere smentito, consapevole che non si deve mai dare nulla per scontato, ma è bene verificare di persona l’attendibilità o meno di un fatto e riconoscere eventualmente di avere male indirizzato i miei timori.
È quanto è accaduto giovedì 12 ottobre, quando ho intrapreso il viaggio per Capalbio, destinazione Monteverro, azienda fondata nel 2003 da Georg e Julia Weber, sulla quale avevo precedentemente preso tutte le informazioni del caso. Da dove nascevano le mie preoccupazioni? Da una commistione di vari elementi: una coppia proveniente da Bayern investe in un territorio dove tutto c’era fuorché vigneti, impianta vitigni internazionali come cabernet sauvignon, cabernet franc, petit verdot, grenache, syrah, merlot, chardonnay e una quota secondaria di vermentino; il parco botti è composto esclusivamente da barriques (circa 1200), l’intento è sin dall’inizio quello di produrre grandi vini di fascia alta e di raggiungere il Gotha dell’enologia internazionale, la consulenza esterna arriva nientemeno che da Michel Rolland, a pieno titolo un vero esempio di “influencer”, enologo che ha operato per centinaia di aziende in ben 22 Paesi, portando la propria visione e lasciando una chiara impronta del suo passaggio, tanto da essere stato soprannominato “flying winemaker”; in Italia hanno usufruito dei suoi servigi nomi noti come Ornellaia, Caprai, Tenuta di Biserno (Antinori) per citarne solo alcuni.
Insomma, il mio timore era che questi vini potessero ricalcare in qualche modo una formula già ben collaudata, puntando ai soliti vitigni internazionali, alle barriques e all’enologo di grido.
Poi ho conosciuto Georg e Julia, ho letto nei loro occhi tutta la passione e una rara consapevolezza di cosa vogliono realizzare, la voglia di fare bene in ogni ambito, prima di tutto creando un ecosistema quasi perfetto e autosufficiente, rigorosamente bio, dove per bio non si intende solo trattamenti ridotti a pochi interventi di zolfo e rame, ma ripopolamento di numerose varietà di insetti e di piante tipiche della macchia mediterranea, con l’obiettivo di ottenere un grande equilibrio ambientale, dove l’intervento umano possa essere sempre meno necessario. Un lavoro imponente che coinvolge circa 50 ettari di territorio, di cui 40 vitati.
Ma non basta, l’incontro con l’enologo Matthieu Taunay è stato l’elemento definitivo, che ha eliminato le nubi che aleggiavano minacciose nella mia mente, perché ho visto con chiarezza che i vini li fa lui, con una meticolosità impressionante, attento a ogni particolare, a ogni sfaccettatura, ben lontano da qualsiasi rischio di omologazione, grazie a un lungo percorso di crescita attraverso esperienze fatte prima in Borgogna (Domaine Lejeune a Pommard) e Champagne (Heidsieck & Monopole), poi in Napa Valley (Newton Vineyard), e ancora in Francia da Domaine du Père Pape nella Valle del Rodano, per poi spostarsi da Viña Perez Cruz nella Maipo Valley cilena, in India presso la Humpty Heritage Winery, in Nuova Zelanda all’Alpha Domus e Alpha Omega, in Sud Africa alla Rupert & Rothschild Vignerons.
Un simile bagaglio di esperienze, di interpretazioni enologiche spesso quasi contrapposte, ha fornito a Matthieu gli strumenti per comprendere le differenze di territorio in territorio e usare un proprio approccio al vino, assolutamente non interventista ma frutto di un attento lavoro in vigna, che si conclude con microvendemmie manuali adattate alla diversità del terroir e al grado di maturazione delle uve, che vengono poi vinificate separatamente, in fermentazioni spontanee e rimontaggi per gravità; anche la scelta del metodo di affinamento viene adattata alle singole peculiarità, con alcuni lotti invecchiati in cemento e altri in barrique di rovere francese. Tutto questo lavoro, iniziato nel 2008 a Monteverro, si concretizza in una gamma di vini di indubbio valore.
Non da solo, sia chiaro, con lui c’è uno staff tutto locale (fra cui l’agronomo Simone Salamone) che conosce a menadito la terra in cui l’azienda risiede, inoltre Matthieu si consulta sempre con il suo principale maestro Jean Hoefliger, conosciuto durante l’esperienza alla Newton Vineyard e con il quale ha mantenuto sempre un rapporto di amicizia e confronto. Il team di Monteverro comprende anche Michael Voegele come direttore generale e Andreas Comploj direttore commerciale.
Georg e Julia, anche se risiedono in Germania, sono molto coinvolti nella realtà quotidiana e in contatto costante con l’azienda, dove amano trascorrere tutto il loro tempo libero. Non sono semplici proprietari ma parte attiva del progetto, tant’è che è stato proprio Georg, profondo amante dello Chardonnay, a volere impiantare questo vitigno nel punto più adatto della tenuta che, non va dimenticato, si trova sulle prime colline a soli 5 km. dal mare.
Non c’è niente di meglio che assaggiare i vini dalle botti e dal cemento per rendersi conto delle loro potenzialità; è stato molto interessante sentire lo Chardonnay prima che la partita in cemento e quella in barrique venissero unite, del primo si coglieva la grande freschezza, un frutto vivo e ben delineato, del secondo la struttura, la maggiore profondità e ampiezza, sebbene da solo evidenziava inevitabilmente la presenza del legno.
Finita la visita e gli assaggi in cantina, ci attendeva il pranzo, che per l’occasione Georg e Julia hanno voluto fosse preparato dalla chef Valeria Piccini del ristorante Caino di Montemerano, due stelle Michelin, in abbinamento ai vini dell’azienda.
Abbinamenti decisamente riusciti che hanno messo a confronto una deliziosa Animella di vitello con porcini e caffè (quanta esperienza e sensibilità in questo piatto!) con il Terra di Monteverro 2019 e 2018 (cabernet sauvignon e franc, merlot, petit verdot, 18 mesi in barrique), il primo ancora chiuso ma già con i segni di un’annata importante, con freschezza e trama tannica ben definite e una bella espressione di frutto; il secondo più disponibile, soprattutto al naso, dove ha messo in luce una buona profondità, sfumature di peperone rosso, ribes e una suggestiva speziatura.
Il primo piatto era un Risotto alle caldarroste e vino rosso (cottura perfetta, caldarroste con la giusta morbidezza grazie al passaggio nel latte, piatto giocato tutto su un perfetto equilibrio di sapori), abbinato al Tinata 2019 e 2014 (70% syrah e 30% grenache, 70% della produzione in barrique di rovere francese per 16 mesi con 30% di legno nuovo, il restante 30% in vasca in cemento a forma di uovo):
qui con il 2019 facciamo un ulteriore passo avanti, un rosso sorprendente che profuma di macchia mediterranea, ciliegia, ribes, pepe, arancia sanguinella e cioccolato fondente, elegante e dalle indubbie potenzialità evolutive; la versione 2014, figlia di un’annata davvero difficile ed estremamente piovosa, in questo momento mostra una grazia e una bevibilità davvero trascinanti, abbiamo avuto la fortuna di coglierla in quello che probabilmente era il suo momento migliore.
Come secondo non poteva mancare uno dei piatti toscani più tipici, Il Piccione…viaggiatore (una carne semplicemente perfetta per consistenza, morbidezza e sapore, una delle migliori interpretazioni che abbia provato) abbinato a Monteverro 2019, 2016 e 2013: (45% cabernet sauvignon, 40% cabernet franc, 10% merlot, 5% petit verdot) degustare tre annate diverse che abbracciano un decennio, offre un ottimo spunto per comprendere la crescita qualitativa dell’azienda. Il blend è lo stesso del Terra di Monteverro, ma proviene dalle migliori parcelle e subisce un affinamento di 24 mesi in barrique nuove al il 70%.
Ed è proprio così, infatti, al netto di due grandi annate come la 2019 e la 2016, fra la prima e la seconda c’è comunque uno stacco in nitidezza, precisione, messa a punto in ogni suo aspetto. Oggi berrei sicuramente la 2016, i suoi profumi di rosa, viola, alloro, oliva e sfumature pepate sono molto coinvolgenti e al palato ha già un ottimo equilibrio; ma la 2019 ha una marcia in più, richiama ancora l’alloro, l’oliva, il cassis, si inerpica sulla liquirizia e su venature di zenzero e cardamomo, mentre in bocca è fitto ma sempre sul filo dell’eleganza, con un tannino davvero perfetto. La 2013 mi è piaciuta molto, ha personalità, tutt’ora vivissima, colpisce perché fra le note speziate e un fruttato maturo affiorano ricordi di ciliegia e lampone, amarena, molto bello; stesse sensazioni all’assaggio, ancora freschissimo, fine, con una polpa ben amalgamata al tannino.
Chiudiamo la bella esperienza con il dolce, ovvero Melograno e cioccolato, che in realtà ha una dolcezza contenuta, proprio grazie alla presenza di una sfoglia di melagrana che gli dà uno spunto piacevolmente acidulo; forse l’abbinamento con il Monteverro Chardonnay 2020 non è perfetto, ma come si dice “tiene botta”, pulisce le pareti della bocca lasciando il desiderio di un altro boccone, grazie alla freschezza piena e un corpo armonioso e strutturato.
Una visita davvero piacevole, in un paesaggio fra i più belli della bassa Maremma, certo questi vini non saranno per tutte le tasche (si va dai 40 ai 150 euro), ma non si può non riconoscerne una classe davvero elevata e una interpretazione intelligente da parte dell’enologo, che li fa “respirare” la terra da cui provengono cogliendone tutte le meravigliose sfumature.
Roberto Giuliani