Statistiche web
Notizie e attualitaStorie di cantine, uomini e luoghi

Isola del Giglio: quelle poche vigne terrazzate che rubano emozioni

Isola del Giglio
Il Giglio fa parte dell’Arcipelago Toscano ed è la seconda isola per estensione dopo l’Elba, il suo nome non ha nulla a che vedere con il noto fiore, ma è dovuto sin dall’antichità alla presenza di capre (in greco aigylion, aighès, che significa appunto “capre”), che poi fu trasformato in Igilium in epoca romana e nel Medioevo in Gilium. Ha una popolazione stanziale di soli 1340 abitanti e una superficie di circa 23,8 km² (compresi i 2,6 di Giannutri che ne fa parte) ed è un “comune sparso”, ovvero non ha un centro di riferimento ma è composta da tre distinti borghi: Giglio Porto, Giglio Castello e Giglio Campese.

Giglio Porto

Il primo è il punto di arrivo e partenza di tutte le imbarcazioni, ha subito non poche modifiche nel corso dei decenni, nonostante il suo aspetto esteriore sia assolutamente gradevole, una volta arrivati ci si rende conto che è diventato in gran parte, purtroppo, un condensato di quel turismo a buon mercato che ha in qualche modo oscurato parte di quelle tradizioni e mestieri che caratterizzavano l’isola (sotto sono sepolte le ultime vestigia della villa romana appartenuta agli Enobarbi), un fenomeno che conosciamo bene e possiamo osservare in molte delle località italiane più gettonate.

Giglio Castello

Castello si trova nella parte più alta dell’isola, con il Poggio della Dogana che tocca i 496 metri di altitudine, ha il suo centro storico circondato da mura che culminano con la bellissima Rocca Pisana; una parte più recente si sviluppa per un breve tratto in direzione sud.

La Torre del Campese di sera
La Torre del Campese di sera

Campese, invece, è situata nella parte nord-occidentale dell’isola, all’opposto di Giglio Porto, qui fino al 1964 si estraeva la preziosa pirite, tant’è che c’è ancora la vecchia miniera. C’è anche la spiaggia più grande, in una baia caratterizzata dalla presenza di un faraglione e della Torre del Campese (altra spiaggia dove vale la pena andare è “Le Arenelle”, a nord di Giglio Porto).
Nelle giornate limpide, da Giglio Castello si possono vedere chiaramente le isole di Montecristo, Pianosa, Giannutri, Elba, la Corsica e persino le Formiche.

L'isola di Montecristo avvolta dalla foschia, in quei giorni sempre presente
L’isola di Montecristo avvolta dalla foschia, in quei giorni sempre presente

Il 13 gennaio 2012 l’isola ha assistito alla tragedia della nave da crociera Costa Concordia, comandata da Francesco Schettino, che ha subito uno squarcio di 70 metri dal più piccolo del gruppo di scogli denominato “Scole”, 500 metri a sud di Giglio Porto; la nave ha continuato la navigazione fin davanti al porto dove si è arenata e inclinata affondando per oltre la metà dello scafo. In quel drammatico evento sono morte 32 persone e ne sono rimaste ferite 193. Successivamente quel piccolo scoglio è stato denominato “Scoglio Schettino”.
La Costa Concordia era la più grande nave da crociera italiana, lunga 290 metri, larga 35,5 e alta 52, con ben 1500 cabine e una capacità di 3780 passeggeri più 1100 di equipaggio. La nave è rimasta davanti al porto per 922 giorni, prima di poter essere trasportata al porto di Genova e demolita. In quei due anni e mezzo ci fu un afflusso di turisti enorme, spinti dalla curiosità e dal desiderio di fotografare la nave… tutto il mondo è paese.

Faro delle Vaccarecce
Faro delle Vaccarecce

Al Giglio esistono tre fari marittimi, il primo dei quali è detto “delle Vaccarecce” ma anche “Faro antico” e “Faro vecchio”, si trova nella parte nord dell’isola, in località Scopeto, su un promontorio a 300 metri di altitudine; è stato costruito dalla Marina Militare nel 1865, ma la sua collocazione si è dimostrata presto inadeguata, spesso veniva nascosto dalle nuvole e inoltre aveva un piano focale troppo alto.

Faro di Punta Fenaio
Faro di Punta Fenaio

Nel 1883 è stato dismesso e rimpiazzato dal Faro di Punta Fenaio, situato all’estremità settentrionale davanti al mare a poche decine di metri di altezza. Oggi il faro è di proprietà privata, parte di un Resort dove è possibile pernottare e mangiare, l’accesso è difficoltoso, il sentiero è molto sconnesso e in alcuni punti con forti pendenze, attraversabile solo con la Jeep o a piedi e ben attrezzati, ma non certo in piena estate, poiché è quasi interamente esposto al sole.
Nello stesso anno è stato inaugurato anche il Faro di Capel Rosso, che si trova a sud dell’isola sulla punta omonima, come quello di Punta del Fenaio è tutt’ora funzionante, da quando è stato automatizzato negli anni ’80 è rimasto disabitato fino al 2016, anno in cui è stato assegnato all’azienda fiorentina “ATI Raggio le Esperidi” che lo ha trasformato in struttura ricettiva.

Vigneti al Giglio

Essendo andato a visitare l’isola dal 4 all’11 agosto, non sono riuscito ad avventurarmi nei numerosi sentieri che l’attraversano, il caldo era davvero eccessivo (a detta degli abitanti del luogo, mai stato così caldo e afoso), ma ho girato abbastanza per rendermi conto di quanto in passato la viticoltura fosse importante. Qui si coltivava vite sin dal lontano ‘500, gran parte del territorio era occupato da vigne, oltre 500 ettari, ovvero 5 km² su 24 dell’intera isola!
Una chiara testimonianza della produzione e commercio di vino isolano è riportata nel libro del medico e filosofo romano Andrea Bacci “Storia Naturale dei Vini”, scritto nel 1595, nel quale racconta: “In prossimità dell’Isola d’Elba e dell’agro di Siena cui è collegata dal mare, là dove si dice che un tempo vi era Ansedonia, c’è l’Isola del Giglio che è molto piccola, dalla quale si spedisce a Roma un vino che talvolta chiamano col nome preso a prestito di «Corsico». L’isola tuttavia produce vini rossi migliori dei bianchi, in minore quantità quelli dorati, ma nella stessa sostanza e nel colore un poco carichi, che trasportati talvolta in piccole botti con i vini provenienti da Porto Ercole, trovarono un loro posto tra i doni degli isolani”.

Vigneti al Giglio

Purtroppo quel prezioso terroir vitato è andato via via diminuendo, fin quasi a scomparire negli anni ’90, ne è rimasta chiara traccia nelle numerose piante di vite “maritate” con arbusti, cespugli, piante infestanti e piccoli alberi ancora oggi perfettamente visibili in numerose parti del Giglio. A testimoniare la presenza secolare della vite al Giglio, il suo perfetto adattamento e la sua incredibile capacità di resistere anche a un clima torrido come quello di quest’anno; infatti, mentre molte altre piante si sono seccate e non ce l’hanno fatta, le foglie delle viti erano perfettamente verdi, sane, hanno vinto loro!
Tutto questo dà all’isola un indubbio fascino, ma rappresenta anche la perdita di un prezioso lavoro tramandato per secoli dai contadini del posto.

Le foglie di vecchie viti che spiccano nella macchia
Le foglie di vecchie viti che spiccano nella macchia

La cultura contadina è qualcosa di straordinario e assolutamente sottovalutato nel mondo moderno, basti pensare che si è forgiata in condizioni di povertà o comunque di disagi economici; chi lavorava la terra doveva conoscere una marea di cose, molte basate su esperienza diretta, ma anche tramandate dai padri, dai nonni, dagli avi. L’isola del Giglio è un condensato di tutto questo, bisogna girarla, percorrerne i sentieri più duri per comprendere cosa è stata la vita di un agricoltore in questa terra meravigliosa ma selvaggia. I vecchi dell’isola sono un patrimonio che andrebbe preservato e tramandato, sono loro che hanno curato i terrazzamenti, ottenuti con lo scasso di pietre granitiche, difficilissimi da comporre perché ogni pietra deve incastrarsi alla perfezione con l’altra (ecco l’opera di ingegneria). Il rischio elevato invece è che tutta la loro esperienza possa andare perduta per sempre, quella di contadini storici, veri e propri personaggi come Biagio Stagno detto “Di Bugia”, Giovacchino Lubrari, Pietro Danei “Dentistrinti”, Domenico Centurioni “Il Ghego”, Giovanni Centurioni “Nanni di Assuntina”, Antonio Bancalà, Biagio Strizzi e tanti altri (quella di dare soprannomi è una tradizione isolana). Essere viticoltore al Giglio significa saper fare un mucchio di cose, come Mario Brizzi “Di Stoppetta” e Vittorio Centurioni, esperti nella fabbricazione di manufatti in canne e salci, come le ceste per raccogliere l’uva, i cui nomi variano secondo le dimensioni: cestino, paniere, mezzano, cestone, quest’ultimo in grado di contenerne fino a 50 kg. Qui al Giglio ogni cosa ha il suo nome, la pianta di vite si chiama “calzo”, i muretti a secco sono detti “greppe”, l’erba usata per legare i tralci “serracchio”, le vie di comunicazione “strabelli”, potrei andare avanti ancora per molto…

La Spiaggia di Giglio Campese al tramonto
La Spiaggia di Giglio Campese al tramonto

E poi ci sono i “palmenti”, questi presenti in tanti altri luoghi d’Italia, casette in pietra destinate alla raccolta dell’uva e alla pigiatura; se ne trovano in vari punti dell’isola, sono stati costruiti tra il 1500 e il 1700.
Sul finire degli anni ’90 qualcosa ha cominciato a muoversi, uno dei primi ad avere capito l’importanza di salvaguardare il vigneto del Giglio è stato sicuramente Francesco Carfagna, un professore di matematica romano convertito alla vigna gigliese, di cui nel 2011 ha raccontato con dovizia di particolari Stefano Tesi.
Camminare fra i filari di vite ad alberello bidimensionale con potatura a guyot e ascoltare le mille storie e vicende che in più di vent’anni ha vissuto Francesco, è stata un’esperienza illuminante, oltre che emozionante.
Oggi ha più di 70 anni e, nonostante i non pochi acciacchi, saltella da una roccia all’altra con disinvoltura, sì perché qui a due passi dalla Punta Capel Rosso, nel profondo sud dell’isola, la terra è questa, un condensato di rocce, arbusti, solchi, tutto in considerevole pendenza. Ma a Francesco e agli altri produttori dell’isola che ho conosciuto dedicherò opportuno spazio in seguito.

Grappolo di Ansonaco, azienda Castellari
Grappolo di Ansonaco, azienda Castellari

Oggi gli ettari vitati sono una quindicina (a detta di Simone Ghelli dell’azienda Castellari sono più di 20, ma i pareri sono discordi), l’1% di quello che erano un tempo, ma sono in continua crescita, l’uva principale è l’Ansonica, qui chiamata da sempre “Ansonaco”, tanto che Giovanni Rossi dell’azienda Fontuccia, ritiene che in passato sia stata registrata con un errore di trascrizione o di pronuncia; è un’uva bianca col carattere di una rossa, fa vini di corpo, con tannini evidenti, spesso capaci di invecchiare per decenni. Altre uve bianche sono Biancone, Moscatello, Malvasia e Procanico, che tradizionalmente contribuiscono per un 10% alla composizione del vino. Qualcuno ha anche delle uve a bacca rossa, filari sparsi di sangiovese, malvasia nera, grenaccia, moscato nero, vermentino nero e altre in piccola quantità.
Ho assaggiato parecchi vini, sia da soli che nei vari ristoranti dove sono stato (a questo proposito vi segnalo Da Santi a Castello, Zio Meino e Da Tony a Campese, e anche se è un po’ caro vale la pena cenare al Resort di Punta Fenaio, la vista sul mare è spettacolare) e ho trovato una qualità davvero notevole, soprattutto vini che emozionano, con i diversi stili dei produttori ma sempre contraddistinti da una carica espressiva non comune.

Cena al Resort di Punta Fenaio
Cena al Resort di Punta Fenaio

Per ragioni di spazio mi fermo qui, il resto ve lo racconterò nelle schede dedicate a produttori e vini (Fontuccia, Altura, Paradiso dei Conigli, Parasole, Castellari, mentre per Scarfò dovrò attendere fine anno perché l’azienda non ha più vino), ma vorrei concludere con una riflessione: è giusto che ci sia un lento riappropriarsi del vigneto isolano, ma quello che spero è che non diventi l’ennesimo caso in cui un intero territorio viene assoggettato alla monocoltura, il fatto che il Giglio sia sotto la tutela del Parco Nazionale Arcipelago Toscano e che più di un terzo dell’isola sia considerata “Riserva generale orientata”, cioè sottoposta a vincoli paesaggistico-naturalistici, dovrebbe rappresentare un limite per futuri interessi imprenditoriali, soprattutto extraisolani, ma non si può mai dire…

Roberto Giuliani

Roberto Giuliani

Figlio di un musicista e una scrittrice, è rimasto da sempre legato a questi due mestieri pur avendoli traditi per trent’anni come programmatore informatico. Ma la sua vera natura non si è mai spenta del tutto, tanto che sin da ragazzo si è appassionato alla fotografia e venticinque anni fa è rimasto folgorato dal mondo del vino, si è diplomato sommelier e con Maurizio Taglioni ha fondato Lavinium, una delle prime riviste enogastronomiche del web, alla quale si dedica tutt’ora anima e corpo in qualità di direttore editoriale. Collabora anche con altre riviste web e ha contribuito in più occasioni alla stesura di libri e allo svolgimento di eventi enoici. Dal 2011 fa parte del gruppo Garantito Igp.

Articoli Correlati

Pulsante per tornare all'inizio