A dirla tutta, di questa incredibile etichetta abbiamo già parlato, precisamente nel 2014, quando ci sembrò un miracolo il fatto che si potesse bere una Falanghina integra a undici anni dalla vendemmia. Beh, cosa dovremmo dire adesso che ne abbiamo stappata un’altra sulla soglia dei vent’anni durante una mirabolante cena da Mimmo De Gregorio allo Stuzzichino di sant’Agata sui due Golfi? Il miracolo di questo vino, prodotto in poco più di mille bottiglie da uve coltivate nel Comune di Napoli, precisamente ai bordi degli Astroni, uno dei cento vulcani spenti dei Campi Flegrei è nelle mani di Raffaele Moccia, paziente e laborioso viticultore. All’epoca in azienda c’era Maurizio De Simone, un enologo che ha sempre amato la verità nel bicchiere prestandosi volentieri ai piccoli vigneron. E all’epoca Raffaele aveva avviato il lavoro delle vigne paterne nel 1990. Fra i due fu subito amore e i risultati si sono visti nel tempo, anche quando poi Maurizio volò in altri in lidi. Nel vigneto, passato nel corso degli anni dagli iniziali te a quasi dieci ettari, ormai ben visibile sulla collina cinta dal muro aragonese e borbonico che circonda la foresta degli Astroni, piedirosso, falanghina e altre uve a bacca rossa e bianca. Maurizio De Simone ebbe l’idea di fare un blend fra una massa lavorata in legno e una in acciaio e nacque appunto Vigna del Pino, a pendant con Vigna delle Volpi da uve Piedirosso. Nel corso degli anni il bianco è cresciuto fino a spiazzare i più sapienti degustatori per la sua incredibile performance. Ricordiamo che parliamo infatti della 2003, una delle annate più calde che la storia ricordi, la prima vendemmia da global warming anche se all’epoca non c’era tutta questa consapevolezza della gravità, ma anche delle opportunità, del problema.
Una delle ultime bottiglie esistenti arriva così alla nostra tavola e una volta stappata regala nel bicchiere il sole di Napoli addolcito dalla brezza marina del Golfo. Sì, perché il sentore di cedro, agrumato maturo, macchia mediterranea, il rimando di idrocarburo profondo e ampio, regala un profilo olfattivo ricco, rilassante, estremamente piacevole. Soprattutto quando passa il tempo per quel po’ di ossigenazione necessaria che rende ancora più tonica e vibrante la bevuta. Una esperienza incredibile, qualche mese ai vent’anni per una Falanghina a cui nessuno dava un anno di vita quando fu vendemmiata. L’ennesima prova che per bere bene serve soprattutto tanta cultura condita da altrettanta pazienza.
Luciano Pavesio
www.agnanum.it
Laureato in Filosofia e giornalista professionista, lavora al Mattino dove da anni cura una rubrica sul vino seguendo dal 1994 il grande rilancio della viticoltura campana e meridionale. Al centro dei suoi interessi la ristorazione di qualità, la difesa dei prodotti tipici e dell'agricoltura ecocompatibile. È autore per le Edizioni dell'Ippogrifo delle uniche guide, sponsor free, sui vini della Campania e della Basilicata andate ripetutamente esaurite oltre che del fortunato Le Ricette del Cilento giunto alla terza edizione. Con la Newton Compton ha pubblicato La cucina napoletana di mare, I dolci napoletani, 101 vini da bere almeno una volta nella vita. Ha vinto il premio Veronelli come miglior giornalista italiano nel 2008. Dal 1998 collabora con la Guida ristoranti Espresso, è impegnato nella nuova guida Vini d'Italia di Slow Food. Fa parte del gruppo Garantito Igp.
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Sommelier e master sul servizio vino e relazione col commensale, ha tenuto alcuni corsi in area territoriale del Pavese di approccio/divulgazion (...)
È Sommelier e Degustatrice ufficiale A.I.S. rispettivamente dal 2003 e dal 2004; ha sviluppato nel suo lavoro di dottorato in Industrial Design, (...)
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