La cosiddetta riapertura è alle porte, anche se nessuno ancora ha capito di preciso se, come, quando sarà. E, soprattutto, se funzionerà. Il funzionamento si giudicherà su tre parametri: sanitario – e non è compito nostro – sociale ed economico. Il secondo e il terzo, come cronisti, ci investono invece in pieno. Tra le preoccupazioni generali, quelle maggiori (non per importanza in assoluto, ci mancherebbe, ma per gravità e implicazioni delle conseguenze) riguardano quel vastissimo settore che fa leva sulla socialità, lo stare insieme quindi, e comprende turismo, ristorazione (che da sola vale 86 miliardi di euro e 1,2 milioni di posti di lavoro) e relativi indotti: dai produttori di vino e cibo alla distribuzione, dall’industria del divertimento al commercio al minuto, dai trasporti alla stampa specializzata e giù a cascata.
A Firenze, il gruppo spontaneo dei “Ristoratori Toscana” è diventato in poche settimane un’aggregazione trasversale che riunisce migliaia di operatori di tutta l’Italia suddivisi in associazioni e gruppi nati sui social: ora minacciano di diventare una sorta di Gilet Gialli della categoria attraverso una federazione nazionale di imprenditori della ristorazione autobattezzatasi M.I.O. (Movimento Imprese Ospitalità), per un numero stimato di circa 75.000 imprese. Per martedì 28 aprile alle 21 hanno organizzato un flash mob in occasione del quale, tutti contemporaneamente, accenderanno “per l’ultima volta” le insegne dei loro locali. La mattina dopo andranno invece davanti ai rispettivi comuni a consegnare simbolicamente le chiavi. A rincarare la dose è venuta anche la Fipe, che per i pubblici esercizi – bar, ristoranti, pizzerie, catene di ristorazione, catering, discoteche, pasticcerie, stabilimenti balneari – prevede “30 miliardi di euro di perdite e il rischio di veder chiudere definitivamente 50mila imprese per 300mila posti di lavoro”. Ovunque, del resto, imperversano da un lato simulazioni da post virus, tra paratie di vetro e camerieri coi guanti (ma di gomma, come quando si puliscono i cessi), dall’altro fantasiosi e nuovi “modelli di business” che, in buona sostanza, suggeriscono ai ristoratori di cambiare mestiere, trasformandosi in imprenditori del catering o dell’asporto. Sbocchi non certi praticabili per tutti e che comunque, in quanto pecetta momentanea pensata più per passare il tempo che non per fare affari, già mostrano la corda. Insomma è un subbuglio di domande e di ansie per il futuro.
Al netto di commenti miopi, o emotivi, o cointeressati (tutti purtroppo presenti in abbondanza, anche sui giornali), dividerei il discorso in due parti molto nettamente separate, dove il confine è segnato tra la fine dell’emergenza e il post emergenza. Finchè non si sarà conclusa la prima non potremo infatti realmente conoscere la seconda. Sulla quale, quindi, sbilanciarsi ora è prematuro. Può darsi accada di tutto, dal massimo del bene al massimo del male, ma ancora nessuno può saperlo. Concentriamoci dunque sulla prima. Per come si delinea adesso, con il periodo transitorio e le relative norme, le conseguenze più evidenti saranno due (scegliete voi quale precederà l’altra, secondo me saranno concomitanti):
Insomma, la gran parte della gente starà a casa e, se proprio avrà voglia di qualcosa, se la farà portare. Ma ovviamente non sarà la stessa cosa né per il cliente, né per il ristoratore. Il tutto si risolverà con una facilmente vaticinabile catastrofe e la caduta a scalare di tutti i settori del comparto. Più una variabile inquietante: a chiudere non saranno solo i più deboli o i meno capaci. Insomma non ci sarà una selezione qualitativa. La decimazione potrà dipendere da mille altri fattori contingenti: ubicazione, regione, architettura, interpretazione locale delle norme generali e così via.
Ma il punto focale è forse un altro, sebbene meno appariscente in un periodo di emergenza come questo. Sarà capire, al netto del danno percentualmente maggiore che subiremo in Italia in quanto paese economicamente molto dipendente dalla filiera turismo-ristorazione-cibo-vino, se la crisi che si profila sarà anche globale, e perciò planetaria, oppure più nazionale che altro. Ovvio che se, per ragioni di prevenzione sanitaria, andare al ristorante diventerà ovunque pressoché impossibile, o pericoloso, o troppo scomodo, o comunque spiacevole, anche le conseguenze e i rimedi andranno visti in un’ottica planetaria e i contraccolpi negativi spalmati sull’intera industria mondiale del settore. Se invece il problema, per questioni normative o epidemiologiche, riguarderà solo o soprattutto l’Italia, allora saranno dolori peggiori. Anche alla luce del quadro sociopolitico generale, è difficile essere ottimisti.
Stefano Tesi
Giornalista cresciuto con Montanelli al giornale, si occupa da sempre di agricoltura, agroalimentare enogastronomia e viaggi. Ha lavorato tra gli altri per Cucina Italiana, Meridiani del gusto, Viaggi & Sapori, Bell’Italia. Collabora per Civiltà del Bere, Dove, Corriere Vinicolo, Guida Ristoranti dell’Espresso, oltre a curare la sua blog-zine Alta fedeltà. È assaggiatore professionista di olio extravergine. Fa parte del gruppo Garantito Igp.
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