L’Associazione Più Freisa incontra l’alta cucina del Ristorante il Faggio di Pollone
Circa un mese fa si è tenuta, presso il Ristorante Il Faggio di Pollone (BI), una serata all’insegna dell’alta cucina e dei vini prodotti dall’Associazione Più Freisa capitanata dal Presidente Domenico Capello. Il noto vitigno e dunque vino piemontese, erroneamente chiamato da tutti la Freisa quando in realtà la forma grammaticale corretta è il Freisa – in entrambi i casi – ha radici profonde radicate nella storia di questa stupenda regione italiana.
Proprio dal cuore dell’area vitivinicola nasce la suddetta associazione che unisce produttori, diversi territori e culture, e ovviamente la sopracitata cultivar. Un progetto ambizioso, non c’è che dire, tra i vari principi possiede quello di tutelare, promuovere e valorizzare – attraverso attività rivolte agli operatori di settore, giornalisti e soprattutto consumatori – le unicità e le peculiarità di un vitigno antico, versatile, e, pochi ne sono al corrente, capace di invecchiare molto bene. La filosofia di Più Freisa non si limita alla promozione commerciale e culturale, ma ambisce a difendere l’ambiente circostante, e lo fa attraverso la crescita di una concreta consapevolezza orientata in tal senso; il fine è ridurre il più possibile l’utilizzo di prodotti chimici in vigna e mantenere un’elevata qualità in cantina.
Negli ultimi anni il Freisa ha guadagnato sempre più interesse da parte del pubblico e degli appassionati, tanto da essere stato eletto Vitigno dell’Anno 2022 dall’Assessorato all’Agricoltura e Cibo della Regione Piemonte insieme a VisitPiemonte. Inutile nascondere che nell’immaginario collettivo, al pari di Grignolino e Dolcetto, il Freisa è ancora il vino del quotidiano, della buona tavola e del bere spensierato, dunque la strada da percorrere è ancora lunga per sdoganare questi pregiudizi. I risultati ottenuti, e i grossi passi avanti fatti in termini di qualità, si devono all’impegno dei tanti produttori e ad un percorso sperimentale attuato dall’Università degli Studi di Torino – Facoltà di Agraria.
Da sempre considerato cugino del nebbiolo con cui condivide l’85% del patrimonio genetico (tesi attestata da studi genetici condotti da Anna Schneider e Vincenzo Gerbi), la costante ricerca sui tannini spiccati del freisa – gestiti ovviamente con cura in vigna e in cantina – hanno reso possibile la produzione di vini tecnicamente ineccepibili ed equilibrati, longevi e soprattutto piacevoli. Le origini di questo vitigno sono davvero lontane, bisogna arrivare sino al 1517 per trovare le prime testimonianze scritte in cui viene menzionato: “Pro qua libet carrate et somate Fraesarum solidum unum, denario sex”; appare dunque nelle tariffe doganali piemontesi di Pancalieri, dove viene stimata il doppio delle altre uve. Il freisa è soprattutto un vitigno versatile in grado di assorbire il potenziale di un territorio vocato, come quello piemontese, restituendone ogni sfaccettatura.
Vinificato fermo, vivace, rosé, spumante o addirittura chinato, conquista l’attenzione del consumatore grazie alla sua estrema bevibilità, piacevolezza, giovialità.
Molti produttori stanno tentando la strada del prolungato affinamento in botte, teoria che condivido, ma solo in parte; a mio avviso il Freisa deve trovare la propria strada non scimmiottare il Nebbiolo, e lo stesso discorso vale per il Barbera, Dolcetto, Grignolino… Non mancano certo elementi attrattivi per avvicinare gli appassionati di vino al territorio dove viene prodotto: paesaggi collinari incantati che variano ad ogni stagione in termini di colori della natura, i tanti sentieri di Langa e infine i cosiddetti tesori del Romanico che costellano le vigne del Torinese e del Monferrato.
Ed è proprio questa importante e storica eredità, illustrata a mestiere dai tanti protagonisti del territorio, che dovrà fungere da calamita per attirare sempre più pubblico verso le tante Cantine produttrici dell’Associazione Più Freisa, le stesse che già da anni sono pronte ad accogliere a braccia aperte il turismo locale, e internazionale, con passeggiate inedite, tour specifici, e degustazioni guidate. La suddetta Associazione inoltre ha l’onere, e l’onore, di tutelare e promuovere il vitigno e dunque vino Freisa che, con i suoi quasi 1000 ettari vitati e la sua diffusione dal Torinese al Basso Monferrato Astigiano alle Langhe, ai Colli Tortonesi, si presenta con sette DOC.
Le stesse sono: Freisa d’Asti, Freisa di Chieri, Langhe Freisa, Monferrato Freisa, Colli Tortonesi Freisa, Pinerolese Freisa e Piemonte Freisa. Di seguito l’elenco dei soci, impegnati giornalmente a far gioco di squadra per conseguire i tanti obbiettivi prefissati dall’Associazione: La Montagnetta, Adriano Marco e Vittorio, Azienda Agricola Roggero, Azienda Agricola 499, Azienda Agricola Valente Fea, Cantine Balbiano, Ca’ del Prete, Cantina Dell’Erba, Cantina Domanda, Cascina Gilli, Cascina Quarino, Crotin 1897, Garrone Evasio e Figli, Erede di Chiappone Armando, Mariotto, Monteruello, Pianfiorito, Stefano Rossotto, Tenuta Tamburnin, Tenuta Santa Caterina, Terre dei Santi.
Veniamo ora all’ottima cena degustata presso il Ristorante il Faggio di Pollone, dal 1990 a mio avviso uno dei locali più affidabili e costanti del biellese. Da sempre in mano ai due eclettici proprietari Luigi Zanone e Alberto Gatti, propone il tipo di cucina che amo: raffinata, contemporanea e soprattutto concreta. La costante ricerca dei migliori ingredienti, e delle materie prime rigorosamente stagionali, divengono una vera e propria ossessione, l’unico comandamento da seguire alla lettera. La ciliegina sulla torta è rappresentata da un locale sobrio, arredato con stile, classe e un servizio impeccabile dove l’ospite viene coccolato – con il giusto distacco e rigorosa professionalità – dal primo all’ultimo istante.
Il menu, ad opera dello chef Rafik El Frougi, è stato studiato appositamente per valorizzare le sfaccettature del Freisa presentato in ben cinque versioni; un viaggio ricco di contaminazioni intervallate di continuo da rimandi legati al territorio biellese.
Ad aprire le danze il salmone Lock Fyne, tra i più pregiati al mondo, marinato ai sapori d’oriente. Un piatto presentato con cura e attenzione massima soprattutto nei confronti delle consistenze. Lo chef è riuscito ad esaltare la materia prima presentandola in tutta la sua semplicità, ho gradito particolarmente il taglio piuttosto spesso e anche l’acidità della salsa e la cremosità della spuma di formaggio in accompagnamento.
Elementi, quest’ultimi, perfettamente contrastati dalla freschezza e giovialità del Freisa d’Asti Frizzante 2021 Elen dell’Azienda Domanda di Calosso (AT), che odora di spezie dolci, chiodo di garofano, fragolina di bosco e lampone; un vino “pericolosissimo” a tavola, in grado di smentire in zero secondi l’adagio secondo il quale il pesce chiama solo il vino bianco.
Veniamo al secondo antipasto, ovvero anatra confit, pesto di noci di Pecan, scalogno e melograno; un turbinio di colori, sapori e giochi di consistenze che conquistano i recettori del gusto e dell’olfatto. Trovo corretto ricordarlo: il cibo va sempre annusato al pari di un buon vino, le sensazioni che saremo in grado di percepire faranno da apripista a ciò che il palato sarà in grado di restituire. Cottura della carne impeccabile, né troppo al sangue né eccessivamente asciutta, l’acidità del frutto contrasta la tendenza dolce dell’anatra e le noci danno croccantezza al piatto.
In abbinamento il Freisa d’Asti Il Forno 2019 di Cascina Gilli di Castelnuovo Don Bosco (AT), un vino slanciato, verticale, succoso, vinificato in solo acciaio e da uve allevate a 360 metri sul livello del mare su terreni dove la marna argillosa grigio azzurra è protagonista. Al naso è pulitissimo, fine, gioco di spezie dolci, liquirizia e frutti neri, evolve di continuo; grande bevibilità.
Arriviamo al primo piatto e da buon vicino di casa novarese non posso che essere d’accordo con la scelta di proporre un risotto, e che risotto: Carnaroli di Baraggia Biellese “Zaccaria” mantecato al Castelrosso e ristretto al Finibus Terrae. La sopracitata varietà di riso viene da sempre considerata la Ferrari del genere, diversi i motivi: capacità di tenere la cottura, grandezza del chicco, versatilità nei confronti delle ricette… tuttavia in questo caso il vero protagonista è il formaggio Castelrosso prodotto dal Caseificio Rosso situato a circa 1.5 km dal ristorante. Un prodotto in parte simile al noto Castelmagno, dunque con spiccate doti di acidità perfettamente in grado di sgrassare la cremosità/grassezza del piatto e ripresa dalla riduzione del vino che andremo ora a vedere.
Il Piemonte Freisa Finibus Terrae 2017 di Cantina Terre dei Santi, storica cooperativa di Castelnuovo Don Bosco (AT), affina 30 mesi tra acciaio e legno. Rispetto ai due vini precedenti, dove il classico rubino squillante con riflessi violacei era protagonista, qui fa capolino l’unghia granata e una maggior consistenza. Anche il naso è più austero, in levare, pian piano si apre e rivela tutta una serie di spezie orientali, incenso, amarena matura e petali di rosa macerati. Il vino in bocca è pieno, potente, sapido, non privo di freschezza tuttavia l’annata calda si fa sentire per via di un alcol percepito leggermente sopra le righe; in abbinamento al piatto quest’ultima sensazione svanisce completamente.
Ci troviamo in Piemonte, terra di grandi vini rossi e anche carni rosse, tuttavia il secondo non poteva ignorare questo perfetto connubio. La guancia di manzo brasata 48 ore con patate di montagna e bietoline è il classico piatto da godere con la dovuta calma, e data la tenerezza della carne in sala avrebbero potuto tranquillamente non presentare il coltello. Scherzi a parte ho assaggiato piatti simili con tagli di carne anche più tenaci che in bocca presentavano lo stesso grado di scioglievolezza con la metà delle ore di cottura, dunque a mio avviso 48 mi sono sembrate un po’ una forzatura, soprattutto in tempi come questi; forse unica nota su cui riflettere dell’intero menu, non uso l’aggettivo “negativa” perché il piatto è stato stupendo a 360°.
Il Freisa d’Asti Superiore Bugianen 2017 di Domenico Capello, alias La Montagnetta di Roatto (AT) affinato in legno, data la struttura e potenza del sorso ha saputo accompagnare egregiamente la pietanza. Da segnalare il fatto che degustato in solitaria, attualmente, rivela un alcol percepito un po’ troppo sopra le righe, anche in questo caso l’annata si è fatta sentire, tuttavia il naso fatica a rivelare i tratti tipici del freisa; ho provato anche a lasciarlo oltre mezz’ora nel calice ma è cambiato ben poco. Lo riassaggerò magari in altra occasione, più avanti, magari necessita ancora di tempo per domare la potenza del terroir di cui è figlio.
Dulcis in fundo, è proprio il caso di dirlo, il cremoso al fondente “Tulaklaum” 75% e salsa all’arancia speziata ha saputo esaltare in maniera esemplare forse la più grande sorpresa della serata: il Freisa Chinato i Tre Santi della Cantina Terre dei Santi già illustrata sopra. Un vino fortificato eterno, ammaliante, dotato di superpoteri: da una parte l’eleganza dell’agrume candito, del chinotto e del floreale lievemente appassito, dall’altra la dolcezza dell’amaretto e la profondità dei toni salmastri, iodati e di lieve salamoia.
In bocca danza letteralmente avvolgendo il palato grazie ad una cremosità straordinaria, pochi attimi dopo si svuota – in senso buono – lasciando spazio alla freschezza del sorso, ai ritorni agrumati e ad una sensazione di pulizia estrema; di alcol percepito non vi è traccia, grande vino davvero, complimenti. Gli stessi che estendo agli organizzatori della serata, all’Associazione Più Freisa, allo chef Rafik El Frougi e ai titolari del Ristorante il Faggio di Pollone dove conto di tornare molto presto.
Andrea Li Calzi