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La Ricolla: vini artigianali biodinamici liguri

Daniele nella sua vigna a Granaccia di Villa Durazzo (L’Esedra di Santo Stefano) a Sestri Levante
Daniele nella sua vigna a Granaccia di Villa Durazzo (L’Esedra di Santo Stefano) a Sestri Levante

Daniele Parma: Italiano di nascita ma tigulo per grazia di Dio.
L’Azienda di famiglia viene fondata nel 1986 e Daniele, classe ’67 (nato il 25 maggio) vi lavora con suo fratello Simone in società con il padre Giovanni Battista: si chiama “Fratelli Parma”.
L’Azienda raccoglie 1000 quintali di uve dagli agricoltori della zona e Daniele le trasforma in vino. Ma è un compito che gli va stretto; il suo intento è quello di acquisire vigne per avere uve di qualità e, solo se servono, comprare da conferitori esterni quelle più belle.
Mille quintali d’uva sono 10 ettari di superficie vitata e lui insiste con suo padre per farsi in proprio un vigneto di almeno 5 ettari e procurarsi le restanti uve.
A venticinque anni, tredici dei quali passati sotto la custodia delle suore Gianelline di Chiavari e con un diploma di perito aziendale e corrispondente in lingue estere, da solo pianta un vigneto, di circa 2 ettari, che gli vale la medaglia di Cangrande della Scala, al Vinitaly 2000. Il comitato che assegna questo Premio, raccoglie le segnalazioni degli assessorati all’agricoltura delle venti regioni amministrative italiane ed ogni anno la medaglia viene data ai tre nomi più meritevoli. Quella che Daniele riceve è la prima medaglia di Cangrande nella provincia di Genova.
Daniele, con quella vigna, dimostra come sia possibile fare nel Levante ligure un’agricoltura “moderna”: un’architettura curata dall’ impalcatura, alla paleria, alle strade d’accesso.
Una vera e propria opera che non passa inosservata.
Il suo intento è convincere suo padre che si può fare agricoltura anche nel proprio territorio, sulla propria terra.
Ma la diversità di vedute è insormontabile, non c’è una visione comune dello sviluppo del progetto vino all’interno dell’Azienda e per questo motivo decide di separarsi dalla famiglia per cominciare un nuovo percorso.
Nel 2004 fonda La Ricolla, partendo da zero, anzi ripartendo dalla sua terra, con il solo vigneto che ha creato.
Il pezzo di mondo che c’è intorno a Chiavari e Lavagna è baciato dal Creatore. Qui il mare della Liguria s’incontra con le colline dell’entroterra rigogliose di viti, frutteti ed orti. Ci sono paesi che sono scrigni di storia: Cogorno, Né, San Salvatore, Carasco, San Bartolomeo…
È un posto che ti fa stare in sintonia con la natura.
È il posto dove c’è il suo fulcro, dove ci sono le sue radici. Senza radici non puoi crescere. Daniele lo sa e lì, in quella terra, vuole affondare le sue radici per crescere, “affinare” la sua idea e spiccare il volo.
Daniele è un contadino di quelli che ancora credono ad un pezzo di terra da coltivare, col coraggio e la tenacia di chi, pur nella difficoltà, non si arrende.
Va in giro per il territorio a cercare della terra dove piantare la vite e si accorge invece che c’è tanta vigna in abbandono e che può ottenere dei convenienti contratti d’affitto.
Pensa che, tutto sommato, è un vantaggio esser partito spiantato, senza un soldo, senza la possibilità di fare degli impianti nuovi, aspettare cinque anni per avere dei risultati, perché così può dare una possibilità a vigne vecchie, con il DNA del posto, di avere una nuova occasione.
Comincia così la sua ricerca sul territorio.
A quei tempi è un bravo tecnico di cantina ma inesperto di vigna.
Ha tanta buona volontà ma la buona volontà non serve se non è applicata. È lui stesso a sostenere che “La forza senza controllo è nulla, come dice bene lo slogan della Pirelli e puoi essere anche Carl Lewis ma non farai mai dei record correndo con delle scarpe coi tacchi a spillo”.
Il primo “impatto” con la viticoltura è disarmante. L’opinione comune è, che per avere vigneti belli, c’è da usare la chimica: diserbanti sottofila, sistemici, glifosate, ecc.
Subito però si rende conto che, una volta intossicata la terra con quei prodotti non sono finiti i problemi bensì iniziano, perché quello che ti cresce nel sottofila non è più un erbaggio spontaneo ma una sorta di arbusto infestante che ha la forza di sopravvivere ai veleni, rendendo difficile anche l’eventuale sfalcio.
Capisce che così non può andare da nessuna parte, oltretutto impiegando fior di quattrini negli ultimi ritrovati della scienza farmacologica chimica applicata all’agricoltura, senza tuttavia avere dell’uva dignitosa.
Nel 2010, “Butto via tutto e comincio a ragionare come ragionava mio nonno Emilio, classe ’99, ultimo di 10 figli maschi, quando (non avevo ancora venticinque anni), ho fatto la mia prima vigna nella sua terra. Siccome mi vedeva spesso partire col trattore, mi diceva ‘ma bisogna dàghe così tanta roba per vèghe ‘n po’ de ùga?’ “.
Nella decisione di abbandonare, passo dopo passo, le pratiche convenzionali prima in vigna e poi in cantina, in favore di metodi di lavoro sempre più rispettosi dell’ambiente e della materia prima, ha avuto un ruolo importante anche l’incontro e il confronto con vignaioli come Stefano Bellotti di Cascina degli Ulivi e Saverio Petrilli di Tenuta di Valgiano: “Una sera a casa di Stefano, dopo che gli ho raccontato la mia storia lui mi ha preso da parte e mi ha detto: ‘Tu sei pronto, adesso tira fuori le palle’. Gli ho risposto che avevo paura di sbagliare e lui: ‘Non puoi sbagliare. Se ci credi non sbagli. Nella vita bisogna essere, prima ancora di fare’ “.
Daniele segue quell’insegnamento e arrivano le prime soddisfazioni concretate in vigne di grande qualità. Ben cinque, in cinque Comuni diversi, per un totale di 4,5 ettari:

Il vigneto a Vermentino della Basilica dei Fieschi a San Salvatore di Cogorno
Vigneto a Vermentino, Basilica dei Fieschi a San Salvatore di Cogorno

-il vigneto alla Basilica dei Fieschi a San Salvatore di Cogorno. Poco più di un ettaro di terreno sabbioso, detto “vigneto del notaio”, a Vermentino.
Una vigna disposta a ventaglio, che arriva fino a lambire le mura della chiesa costruita nel 1244 ad opera del pontefice Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi, discendente del ramo nobiliare della famiglia Fieschi che, in quegli anni, dominavano l’intera valle della Fontanabuona e buona parte della Val Gravegna.

-il vigneto della Prioria di Sant’Eufemiano, a Carasco.
Bianchetta Genovese per circa il 90% con, nelle fasce basse, varietà miste di uve come Moscatella e Cimixià (o Scimiscià).
Un terrazzamento con muretti a secco vecchi di oltre un secolo.

-il vigneto La Crosa, nel Comune di Casarza Ligure, località Verici. Bianchetta Genovese a 150 mt. s.l.m. su terrazze a vista sul mare.

-il vigneto di Vignolo, Comune di Mezzanego, nella Valle Sturla. Terrazzamento di Bianchetta Genovese.

-il vigneto di Tolceto, Comune di Né. Ciliegiolo e Sangiovese.
(Il primo vigneto di proprietà della famiglia, dal 1700).

Nel 2017, ormai avviato alla biodinamica, acquisisce altri due importanti poderi a Sestri Levante: il Tessarolo e il vigneto Villa Esedra (di Santo Stefano), ubicato nel parco della Villa Durazzo, dove parte la produzione a filare lungo di Granaccia.
Intorno alle vigne ci sono circa 6 ettari di ulivi da cui Daniele ricava un olio DOP monocultivar Lavagnina.
Nell’inverno 2018, insieme a Silvia Dellepiane della Cooperativa San Colombano di Certènoli, riporta il Cimixià in bottiglia recuperando un vigneto, sulle scaglie di ardesia a Cassottana, in Val Fontanabuona, l’ultimo di questa varietà ancora esistente negli anni 2000, riprodotto proprio con le marze provenienti dalle stesse piante, di oltre sessant’anni.
Il Cimixià o Cimixà o Scimiscià o ancora Cimiciato, come lo chiama G.B. Arata, nel bollettino agrario del 1888, è tra i numerosi vitigni presenti nel circondario di Chiavari, oltre ai già noti Vermentino, Albarola, Bianchetta e altri. È un vitigno dominante in Val Fontanabuona, iscritto al Registro nazionale dei vitigni presso il Ministero Politiche Agricole e Forestali.
È stato riscoperto proprio grazie a Daniele e attualmente sono circa 6 gli ettari vitati con quest’uva in Liguria, compresi gli 0,7 ettari dell’impianto fatto da Guido Zampaglione, nel 2019, recuperando una vigna a terrazze, abbandonata da più di quindici anni, in località San Lorenzo della Costa, a 250 metri sul mare di Santa Margherita Ligure.

Daniele è un agricoltore, un artigiano, un artista che, della biodinamica, ha sposato incondizionatamente la filosofia e i dettami e che parla così delle sue uve e del suo lavoro: “Lo Scimiscià è un’uva controversa. Si può considerare una varietà selvatica che predilige terreni selvatici, pietrosi: ha bisogno della pietra, di povertà assoluta. Il nome deriva da cimiciaio, assembramento di cimici ed è dovuto a una punteggiatura superficiale della buccia che viene ricondotta alla puntura della cimice. In realtà l’acino accumula molta materia zuccherina e l’esposizione ai raggi del sole carammellizza a puntini lo zucchero. Ha una buccia sottile, problematica da lavorare con le vinificazioni che io chiamo tradizionali, non naturali.
Il vino bianco, in Italia, si è sempre fatto con l’uva ammostata, con la buccia all’interno del mosto. C’era chi la lasciava per tutta la fermentazione e chi anche oltre, come ancora oggi si fa in particolari zone d’Italia/Oslavia. I Vini bianchi, quelli con la V maiuscola, vengono fatti cosi, come i vini rossi. Il grande inganno arriva negli anni Ottanta, con le vinificazioni in bianco in cui bisogna levare tutto: lasciare solo la miscela di acqua zucchero e acidità che si chiama mosto e poi aggiungerci lieviti, nutrimenti, solfiti, ecc. .
Io sono arrivato a ottenere dei vini completamente senza solfiti aggiunti. Me lo posso permettere perché nella mia cantina arriva un grappolo vitale, senza condizionamenti, non dopato e perfettamente conservato con le informazioni giuste, ricevute e codificate durante tutto l’arco dell’anno.
Io e i miei collaboratori curiamo le piante e le rispettiamo, a partire dalle radici. Se è necessario un po’ di concime, usiamo il preparato 500 ovvero il cornoletame. È, a tutti gli effetti, letame di vacca infilato nel cavo di un corno proveniente da una vacca che abbia partorito almeno una volta e sotterrato per lasciarlo fermentare durante l’inverno. Il composto viene poi recuperato in primavera quando ormai ha perso l’odore del letame, acquisendo quello del sottobosco. Rudolf Steiner, che lo ha inventato, lo ha chiamato preparato 500 perché contiene 500 milioni di microrganismi in grado di stimolare e armonizzare i processi di formazione dell’humus nel suolo.
Governiamo la terra con un regime che si chiama biodinamica.

Daniele con il contenitore di cornoletame
Daniele con il contenitore di cornoletame

È un metodo antichissimo in cui l’uomo ritorna proprietario vero non della terra ma della ‘sua’ terra e dei ‘suoi’ terreni, perché ne conosce i meccanismi, sa perché lì la peronospora si forma in un dato momento, perché là c’è l’oidio. Si lavora sempre d’anticipo creando salute non umiliando la terra, con la consapevolezza che una terra sana fa vivere meglio la pianta. La pianta è un essere vivente, che si muove, cresce, si riforma se la tagli, è dotata di memoria ed è anche in grado di difendersi da sola contro le malattie. A volte la collaborazione disequilibrata anzi squilibrata dell’uomo, nella difesa della pianta dalle malattie, ha causato più danni che guadagni. Nonostante la guerra chimica finora scatenata non è ancora stato possibile sconfiggere definitivamente la peronospora o l’oidio, ottenendo solo di alzarne le resistenze e l’aggressività. Quindi è meglio convivere pacificamente e inserirsi in equilibrio cercando, con buon senso e fatica, di conoscere i meccanismi della tua terra.
Poi in cantina ammosto, lascio fare alle bucce il loro lavoro; a volte solo per qualche giorno, a volte per tutta la fermentazione e, in alcuni vini, oltre la fermentazione, anche per cinque mesi.
Poi alla svinatura vado in torchiatura. Le frazioni di torchiatura le metto in bidoncini di acciaio e, al momento dell’imbottigliamento, decido se condire il vino madre con il suo torchiato: a volte solo un parte, altre volte tutto, altre ancora niente.
Dipende da che buccia ti ha dato quell’anno la natura e quanta ne hai usata.
Ci vuole pazienza. È lo stesso che fare il vino del contadino ma molto più complicato”.

Ninte de NinteNinte de Ninte IGT Colline del Genovesato
Bianchetta Genovese del vigneto La Prioria, circa 0,4 ettari con piante mediamente di quarant’anni. Fermentazione spontanea con bucce per circa 4/5 giorni e affinamento in terracotta per almeno cinque mesi. Senza solfiti aggiunti. Produzione di circa 1000/1500 bottiglie, secondo l’annata.
“Se fossi ricco e potessi permettermelo, farei solo questo vino: Bianchetta Genovese da agricoltura biodinamica, vinificata in modo tradizionale.
Nell’annata 2020, due terzi hanno fatto la fermentazione con bucce. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, è stata una grande vendemmia: bellissima primavera, fioritura stupenda e poca acqua; solo quella che serviva. La fase estiva è stata caratterizzata da frequenti rovesci d’acqua, poi c’è stato il sole, il caldo, la pioggia, un po’ di tutto quello che serve ad una pianta, che in natura sarebbe una liana. Si è arrivati alla vendemmia con le piante in forza, le foglie girate all’insù verso il sole e un’uva strepitosa. Ne è venuto un vino che sa di pietra focaia, anzi di pietra: la Bianchetta è sulla pietra e dalla pietra tira fuori il meglio di sé.
Fa terracotta: senza solfiti aggiunti.
Se, in qualche modo, puoi arrivare al giorno dell’imbottigliamento senza solfiti, il problema è andare in bottiglia senza solfiti perché il vino che non è mai vento in contatto con l’ossigeno di colpo ne riceve una botta. È per questo che fino a qualche anno fa, il giorno dell’imbottigliamento, mettevo un pò di solfiti, per precauzione.
Ma, oltre al controllo della mia agricoltura, ovvero un grappolo vitale e al controllo della mia vinificazione tradizionale, ovvero bucce e null’altro, volevo che queste due cose insieme facessero il terzo passo cioè andare nell’ambiente ossidativo per eccellenza: la terracotta.
La terracotta è l’origine del vino: il vino nasce nella terracotta e non nel legno. Lì il vino conosce l’ossigeno, ci fa confidenza e ti fa capire che puoi permetterti un imbottigliamento senza solfiti, perché ha fatto pace con l’ossigeno”.

Berette 2.0 IGT Colline del GenovesatoBerette 2.0 IGT Colline del Genovesato
Vermentino del vigneto di Cogorno alla Basilica dei Fieschi, con il 55% di piante di cinquant’anni e il 45% di piante di dieci anni. Fermentazione spontanea con bucce per circa 10/14 giorni (fino a fermentazione conclusa). Affinamento in anfora per sei mesi. Produzione di circa 5000 bottiglie.
“Berette, in dialetto ligure, sono le bucce dell’uva. Tutte le altre bucce hanno il nome generico di scorza.
Fino al 2019, l’evoluzione di Berette era Oua, un’espressione dialettale che significa ‘ci siamo’, un po’ come il piemontese ‘ai suma’.
Berette 2.0 è la nuova versione di questo vino. Due terzi sono affinati in acciaio(Berette) e un terzo in anfora (Berette 2.0).
Due vini che nascono dalla stessa botte, si separano e fanno due strade diverse: uno rimane in botte chiusa d’acciaio e riceve i solfiti, l’altro almeno sei mesi in terracotta e poi in bottiglia, senza solfiti perché ha fatto pace con l’ossigeno. Qui si capisce quanto l’ossigeno può essere amico del vino se hai fatto una vinificazione adeguata ma, ancora prima, se hai un’agricoltura sincera senza trucchi e senza inganni: un grappolo che arriva a vendemmia in maniera vitale con le informazioni giuste e adeguate non dopato, per farsi vino come vuole la natura.
Che poi può diventare aceto, certamente. Ma puoi berti il vino nel frattempo e farti un po’ di aceto dopo…
È la contraddizione di tutto quello che dice l’enologo.
L’ossigeno è un nemico quando le uve non sono adatte, quando la tua agricoltura non è performante, quando porti in casa materia che sai già che dovrai correggere con il filtro feccia, la chiarificante ecc..
Berette 2.0: un terzo ritorna a casa sua dopo aver fatto un giro di sei mesi nelle anfore a fare conoscenza con l’ossigeno.
Che non è un nemico e può far evolvere il vino”.

Òua al Quadrato IGT Colline del GenovesatoÒua al Quadrato IGT Colline del Genovesato
Vermentino del vigneto di Cogorno alla Basilica dei Fieschi. Fermentazione spontanea con bucce per tutta la durata della fermentazione e macerato per circa centocinquanta giorni, a seconda delle annate (nel 2019, macerazione di cinque mesi: l’annata è stata altalenante; maggio piovosissimo e freddo con nevicate due volte sopra ai 1500 m. ed estate bella. Selezione dei grappoli; pochi ma tanta concentrazione). Affinamento in terracotta per sei mesi. Imbottigliamento a fine luglio con affinamento di tre mesi. Senza solfiti aggiunti. Produzione di 1000/1500 bottiglie, secondo l’annata.
“Questo vino rappresenta la realizzazione del mio quarto desiderio; dopo l’agricoltura secondo natura, dopo la vinificazione solo con le bucce e ‘nente de nente’ altro, dopo la definitiva eliminazione dei solfiti passando per l’ossigeno…la macerazione.
Nel 2018 le migliori uve raccolte, il 27 di settembre, sono state svinate tre mesi dopo, esattamente il 30 di dicembre.
Io faccio le vacanze dal 6 al 20 di gennaio. Sono un appassionato di montagna, mi piace sciare e vado a rifugiarmi in Val Badia da due miei carissimi amici; Luca e Hubert.
Il 2018 era il primo anno del macerato e non me la sentivo di andare in vacanza avendo un vino che macerava in una botte di cemento che, oltretutto, usavo per la prima volta (fino all’anno prima era il serbatoio dell’acqua nella vigna di Tolceto).
Così decido di svinare il 30 dicembre, con ancora una settimana davanti, prima del 6 di gennaio e tutto il tempo per controllare l’eventuale insorgenza di odori strani.
Ma il vino è assolutamente performante e posso tranquillamente partire per l’Alto Adige.
È stata una scelta poco coraggiosa. Potevo e dovevo osare di più. Così, nel 2019, la macerazione è passata a cinque mesi.
Nel 2020 ho fatto ‘svinatura aperta’; ho aperto la cantina a chi voleva venire a vedere che svinavo veramente quel giorno di metà marzo”.

Fu**ing BubblesFu**ing Bubbles
Bianchetta Genovese e Vermentino da vigne di trent’anni. Macerazione sulle bucce per tutta la durata della fermentazione spontanea in acciaio inox. Rifermentazione in bottiglia con mosto congelato. Produzione di 1500 bottiglie.
“Nasce da una notte di delirio, in seguito ad una grandinata, nell’ultima settimana di luglio del 2020. Quella notte è stata corollata da un rosario di imprecazioni, improperi…
Ma la mattina seguente, appena entrato in vigna, alle prime luci, mi sono reso conto che, tutto sommato, era stata una grandinata fortunata che ho ribattezzato (s)fortunata. L’uva, ancora verde e a ridosso dell’invaiatura, aveva retto il colpo.
La situazione era molto meno peggio di quanto ci aspettavamo.
Ci siamo armati di forbicine, abbiamo ripulito le parti di grappolo danneggiate, trattato con argilla per asciugare le ferite con sversamenti di succo (ma per fortuna ancora senza zucchero) e abbiamo ridotto i danni al minimo.
Restavano le fukking parole dette quella notte.
Quando è stata l’ora di vendemmiare, quelle uve però mostravano i segni della batosta che avevano subito e ci siamo posti il problema di cosa farne.
Siccome non era il caso di scimmiottare un Vermentino o una Bianchetta, le abbiamo messe insieme in un blend: è nato così un fukking white wine e, con un po’ di mosto congelato, è diventato un rifermentato: una bolla, anzi un Fukking Bubbles, dedicato a Daniel.
Per spiegare la dedica a Daniel, dobbiamo tornare al 1998, quando già facevo questo bianco frizzante, con l’Azienda Fratelli Parma.
Siccome è un rifermentato in botte, per l’imbottigliamento noleggiavamo l’isobarica. Quell’anno (1998), la macchina arriva in cantina il 19 di marzo. Incominciamo ad imbottigliare ma ancora non c’è un’etichetta e, quando realizzo che è il 19 marzo, mi viene in mente che è la data di nascita di Daniel, il figlio di Hubert, il mio amico altoatesino, che ha voluto chiamare suo figlio come me e che compiva proprio quel giorno, il suo primo anno di vita.
Hubert è di La Villa, nel Comune di Badia, dove i nomi generalmente perdono la vocale finale. Così prendo due piccioni con una fava: trovo il nome al vino e faccio anche una dedica. Sono passati più di vent’anni e quel vino, che mi ero ripromesso di non fare più, mi è toccato rifarlo a suon di fukking parolacce. È un rifermentato in bottiglia con il mosto congelato (e poi scongelato) per far ripartire la fermentazione. Abbiamo fatto lo scongelamento del mosto a febbraio, col freddo, perché volevo una rifermentazione in bottiglia lenta e costante. Chi l’ha assaggiato è tornato a comprarlo e non ne ho più. Quindi lo rifarò”.

La guida AIS premia Daniele con i 4 viticci per OUA 2018 e gli conferisce, per Berette e la filosofia aziendale, il Taste Vin d’argento, un premio assegnato ogni anno ad un solo produttore.
“Io non faccio niente è la terra che fa. Mi inserisco in equilibrio e cerco di non fare danni. Però sono h24 e 7su7 a servizio della natura non viceversa.
Con il mio lavoro vorrei portare l’attenzione sul mio territorio, sulla provincia di Genova e soprattutto in Val Graveglia. Qui si può fare un certo tipo di agricoltura e un certo tipo di vino. Vorrei anche far capire che c’è un altro modo per fare il vino e trarne reddito. Un’agricoltura più antica, che è quella dei nostri nonni. Con pochi soldi un giovane può iniziare a fare il vino. La vitivinicoltura e la cantina oggi hanno un impatto economico abbordabile. In cantina, con una botte di cemento che buttano via, puoi fare tutto.
La viticoltura dà reddito e l’agricoltura biodinamica costa meno a livello economico rispetto a quella convenzionale. Certo, devi aumentare esponenzialmente le tue ore lavoro, devi alzare la tua sensibilità e il tuo spirito di sacrificio, ma i risultati sono appaganti”.

Milva e Daniele in vendemmia
Milva e Daniele in vendemmia

Daniele ha tante idee per la testa che condivide con sua moglie Milva. Insieme formano una coppia perfetta.
Entrambi sono sempre in movimento, sempre pronti a rimettersi in gioco e ogni risultato che ottengono non è un punto di arrivo ma di partenza per altri progetti.
Uno di questi si sviluppa a Monleale, in collaborazione con Fulvio Fassone dei Vigneti Fassone.
Le uve Barbera dei Colli Tortonesi sono affinate in anfora nella cantina de La Ricolla.
Non è ancora prevista una data per la messa in vendita.
È l’unica Barbera al mondo in terracotta e chi ha avuto la fortuna di assaggiarla, direttamente dall’anfora, sostiene che è anche la più buona del mondo. Òua, anzi Ai Sùma!

Valerio Bergamini

La Ricolla
Via Giuseppe Garibaldi, 12/2 NE – 16040 Genova

Valerio Bergamini

Nato il 22 febbraio 1952 a Pavia, dove risiede. Si è laureato nel 1984 in Filosofia presso l'Università Statale di Milano. Dal 1996 al 2014 è stato titolare della concessionaria Piaggio a Pavia. Ha svolto stage all'estero per la conoscenza diretta dei mercati nelle aree emergenti (Tunisia dal 1988 al 1995 e Uzbekistan nel 1995) e ha messo a disposizione la sua esperienza come consulente per un pool di concessionari moto. Parallelamente alla passione per le due ruote è cresciuta quella per la poesia dialettale, per la buona cucina e il buon vino. Ha vinto numerosi premi letterari e concorsi di poesia. Dopo aver conseguito il titolo di Wine master (1990), presso l'Istituto di Cultura del Vino di Milano, ha sempre più approfondito la sua conoscenza enologica seguendo i corsi e le degustazioni organizzate dall'AIS di Milano. È membro del direttivo dell'Associazione Enocuriosi di Pavia che conta più di 300 soci appassionati di vino. Ha al suo attivo numerosi racconti pubblicati in edizioni private. Nel 2013 ha pubblicato il libro Origine del desiderio (di cucinare), nel 2015 il libro "Lino Maga, anzi Maga Lino, il Signor Barbacarlo" e nel 2016 "7 Soste sulla strada della passione".

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