Giovani “barolisti” crescono: Alberto Voerzio di La Morra
Fotografie di Enzo Trento
Sono fortunatamente sfumati gli anni ’70 in cui la Langa cuneese si privava delle sue giovani menti e braccia, spinte a lasciare il duro e poco redditizio lavoro in campagna per il miraggio economico che si stava concretizzando a Torino, complice la Fiat e il suo indotto in grado di assorbire molta manodopera attirata dallo stipendio mensile fisso e sicuro seppur in cambio di faticosi e poco gratificanti turni in fabbrica.
Oggi molti giovani langaroli sono stimolati a proseguire il lavoro degli irriducibili e caparbi genitori, grazie soprattutto al blasone che ha ottenuto nel corso dell’ultimo ventennio questo territorio, non ultimo il riconoscimento di Patrimonio dell’UNESCO.
Giovani che tuttavia sono però restii a sacrificarsi nei lavori in vigneto o in cantina, luoghi sempre più spesso popolati da immigrati macedoni o curdi, rivestendo invece più volentieri il ruolo di enologo o di commerciale.
Differisce per molti aspetti la storia vitivinicola di Alberto Voerzio, classe 1983, da una quindicina d’anni solitario titolare dell’omonima azienda di La Morra, uno dei “templi” del Barolo piemontese, che la passione per questo mestiere l’ha maturata frequentando a “360 gradi” il cugino Roberto, uno dei “mostri sacri” del Barolo di La Morra.
Durante gli studi alla Scuola Enologica di Alba e all’Università di Agraria di Grugliasco, Alberto effettuava un paio di esperienze in Borgogna e a Bordeaux, dove prendeva ulteriore consapevolezza che il suo futuro sarà nel mondo del vino.
È però una telefonata in una gelida serata nell’inverno del 2002 a dare la concreta svolta alla sua vita: Roberto lo avvisava che era in vendita un piccolo vigneto in località La Serra, uno dei nobili “cru” lamorresi, di 3.634 metri quadrati coltivato metà a Nebbiolo e metà a Barbera ma in condizioni non ottimali.
“Con quella telefonata Roberto ha sicuramente messo alla prova la mia passione e i miei obiettivi.” – sottolinea emozionato Alberto, ragazzo dalle idee chiare e sane, contrario ai giri di parole e propenso ad arrivare subito al nocciolo del discorso – “Mi avvertiva infatti che se ero interessato dovevo decidere in fretta, poiché in caso contrario l’avrebbe acquistato lui”.
Il successivo rapido conciliabolo con il papà, lontano apparentemente dal mondo del vino in quanto dipendente alla Ferrero di Alba ma che ha sempre supportato con entusiasmo la passione del figlio, che si faceva garante della compravendita, dava il via di fatto alla sua avventura imprenditoriale.
All’acquisto seguiva il rifacimento dell’intero vigneto dedicandolo a Nebbiolo; nel 2006 la sospirata prima vendemmia e vinificazione in una cantina in affitto in regione Annunziata di appena un centinaio di metri quadrati: 300 litri di Nebbiolo da Barolo pari a 399 bottiglie del cru La Serra uscite sul mercato nella primavera del 2010.
Grazie a un successivo acquisto di un vigneto in località Castagni e all’affitto di terreno confinante con Cherasco, nel 2008 vide la luce un Langhe Nebbiolo e nel 2012 Dolcetto e Barbera, ma la nascita più rilevante si deve registrare senz’altro nel 2009 con nuovo Barolo, ribattezzato nel 2014 Castagni.
Alberto rimaneva nel risicato spazio di vinificazione e affinamento dell’Annunziata fino al 2016, quando finalmente riusciva a inaugurare in Borgata Brandini una cantina tutta sua, essenziale e funzionale, di adeguate dimensioni per lavorare il frutto degli attuali sei ettari di vigneto e produrre sulle 18-20.000 bottiglie, caratteristiche che si ritrovano puntualmente nel suo carattere insieme alla determinazione e serietà.
Quali sono e sono state le difficoltà più grandi nel tuo mestiere?
Le difficoltà sono il sale della vita, quelle che ti fanno stare con i piedi per terra, ma se fai il lavoro che ti piace fatica e difficoltà si superano, sempre cercando di evitare di fare il passo più lungo della gamba.
Entrare sul mercato non è stato facile ma ti aiuta se cerchi di vendere ciò che hai fatto con amore.
Ma se non avessi fatto l’enologo-produttore, cosa avresti voluto fare “da grande”?
“Ho frequentato la scuola enologica e l’università convinto che il mio futuro sarebbe stato nel mondo del vino e ancora oggi, dopo 12 anni di attività, non mi vedo in un ambiente o con una professione diversa da questa. Il lavoro del vignaiolo è affascinante: per 9 mesi fai il contadino a stretto contatto con la natura, cercando di raccogliere il meglio di quanto l’annata ti mette a disposizione, e per 3 mesi fai il cantiniere, cercando di ottimizzare l’uva raccolta”.
Cosa spinge un giovane a intraprendere questa attività?
“Un pizzico di pazzia e tanta passione, così come aiuta una sana competizione con i tuoi concorrenti”.
Vino e… quali sono le altre tue passioni?
“Con l’arrivo di mio figlio, il mio tempo per altre passioni si è ridotto notevolmente. Dedico tanto alla mia famiglia, un valore in cui credo molto”.
Chi è stato il tuo punto di riferimento, colui da cui hai attinto i segreti del mestiere?
“Mio cugino Roberto Voerzio è sempre stato senza dubbio il mio punto di riferimento, non solo dal punto di vista professionale ma soprattutto umano. A lui devo molto se oggi mi trovo a condurre questa mia azienda”.
Come fai per tenerti aggiornato sui metodi e prodotti da utilizzare in vigna e in cantina?
“Non sono un fanatico dell’informazione, seppur la ritengo di estrema importanza.
Prediligo confronti con i colleghi attraverso, ad esempio, una degustazione comparativa di vini dello stesso vitigno e annata mascherando etichetta e nome del produttore”.
Che cosa ti piace di più e cosa di meno del tuo lavoro?
“Amo molto il mio lavoro che, seppur apparentemente tenda a ripetersi, ogni anno è diverso. Grazie al nostro lavoro il vino prodotto è sempre differente, tende a rispecchiare l’annata, con sfumature più o meno marcate rispetto agli anni precedenti, con emozioni indescrivibili che ti regala l’assaggio a vinificazione conclusa o in corso di affinamento, fino all’ultima prima di metterlo in bottiglia.
Non ci sono particolari lati negativi; al contrario, quando un cliente torna a trovarti in cantina è una delle soddisfazioni più grandi”.
A tuo parere qual è il tuo vino più rappresentativo?
“Penso il Barolo. Guardando i miei vini come a dei figli, il primo è quello a cui sei sempre più affezionato. Anche il Dolcetto però per me è molto importante, perché lo considero come il biglietto da visita dell’azienda”.
Così tra una parola e l’altra regaliamo qualche soddisfazione anche al palato degustando il Dolcetto 2017 ottenuto da uve del vigneto Castagni di La Morra di proprietà dal 2009, esposto a sud-ovest, coltivato in maniera rigorosa al pari dei vitigni più blasonati ovvero lasciando appena 5 grappoli per pianta, vinificato con una fermentazione spontanea con lieviti autoctoni per circa una settimana e successivo affinamento in acciaio per 8-10 mesi: 3.000 bottiglie circa di un vino caratterizzato da spiccati sentori di frutta rossa croccante e un tannino finale fitto, fresco e fruttato.
Qual è il vino che ti ha dato più soddisfazione?
“Certamente il Barolo La Serra, il primo vino che ho prodotto, perché l’ho visto e lo vedo crescere in cantina mese dopo mese. Anche la Barbera perché può regalare grandi soddisfazioni, subito ma anche dopo diversi anni se si fa molta attenzione alla quantità prodotta e al giusto gradi di maturazione fenolica”.
E come dargli torto assaggiando dapprima la Barbera d’Alba 2015, anch’essa originaria del vigneto Castagni, affinata per 12 mesi in barrique usati, con una produzione che non arriva alle 5.000 unità:
in bocca è un’esplosione di frutti rossi e neri, mora e amarena in primis, una fresca balsamicità ma soprattutto ritroviamo la grande pulizia ed eleganza già percepite nel Dolcetto.
Spazio quindi al “re” della gamma dei vini di Alberto, il Barolo La Serra 2014, vigneto a un’altitudine di 410 metri con l’esposizione a sud – sud est, potatura corta a 5-6 gemme e doppio diradamento nel periodo estivo: nel primo si lasciano come prassi 4-5 grappoli che vengono “spuntati” o tagliati addirittura a metà nel corso del secondo passaggio per portare a maturazione soltanto il cuore del nebbiolo. Le bottiglie si riducono così a poco più di duemila, il vino assume le vesti prestigiose e importanti senza tuttavia mai essere stucchevole o esagerato ma anzi risulta accattivante con il suo mix di spezie fini e fruttato croccante, una trama tannica finale fitta e omogenea, con un legno dei tre anni di affinamento per nulla invasivo ma già ben amalgamato ma che non potrà che esprimersi al meglio almeno tra un paio d’anni.
Quanto è preparato il cliente medio che arriva in azienda?
“La tipologia di clientela è parecchio variegata, complice anche la “moda del vino”. La cultura enologica negli ultimi anni è aumentata ma a mio parere non più del 10-15% dei visitatori sono preparati e realmente interessati al tuo vino”.
Il complimento più bello che possono fare a un tuo vino.
“Alcuni clienti mi hanno detto che assaggiando i miei vini ritrovano nel bicchiere me stesso, il mio carattere e la mia passione”.
Quale vino italiano ti piace di più? E quello straniero?
“Straniero senza dubbio i vini bianchi della Borgogna” – risponde d’impulso Alberto, mentre impiega qualche minuto di riflessione per stabilire che “Tra i vini rossi mi piacciono l’Amarone e quelli a base di Pinot Nero, Shiraz e Cabernet Franc. Di recente mi hanno colpito alcune bottiglie di vino del Sud, in particolare un paio di Primitivo di Manduria, ennesimo segno di come si sta evolvendo e migliorando la produzione enologica italiana”.
Qual è il tuo giudizio sul mondo del vino in questo periodo?
“Grazie all’ingresso di giovani nel mondo del vino dopo gli studi, alle nuove tecnologie e soprattutto alle esperienze maturate che vengono documentate, la qualità del vino è molto buona, decisamente migliorata negli ultimi vent’anni. Sono molte le aziende che si sono concentrate sulla qualità a scapito della quantità. Ritengo che in questo mondo c’è spazio per tutti, non bisogna fossilizzarsi nell’osservare cosa fanno gli altri, penso sia meglio andare avanti per la propria strada”.
Sono i produttori che fanno il mercato o viceversa?
“Produttori che fanno il mercato sono pochi, tanti si lasciano influenzare dal mercato.
Il fenomeno attuale delle bollicine ne è un chiaro esempio”.
Oggi si parla spesso ma anche confusamente di vini biologici, vini biodinamici, vini naturali…quali sono le tue idee in proposito?
“È giusto che ognuno si senta libero di fare ciò che ritiene più opportuno. Noi al momento abbiamo deciso di coltivare i nostri vigneti in maniera convenzionale”.
In un periodo in cui la crisi economica e le regole del codice stradale portano a un consumo giudizioso di vino, quale potrebbe essere un’alternativa commerciale valida?
“Oggi più che mai è importante capire e ricordarsi dello slogan “Bere in maniera consapevole”: occorre dare la giusta attenzione a come si beve il vino, rispettando tempi, modi e quantità, comprendendo e avendo rispetto della fatica e del lavoro che c’è dentro a un bicchiere”.
Luciano Pavesio